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Decrescita e sviluppo

I PARADOSSI DELLA CRESCITA: VERSO UN APPROCCIO SISTEMICO ALLA TEORIA ECONOMICA

I PARADOSSI DELLA CRESCITA:           (Working paper)

VERSO UN APPROCCIO SISTEMICO ALLA TEORIA ECONOMICA

di

Mauro Bonaiuti

Parte Prima: I fondamenti epistemologici

Dalla bioeconomia alla teoria dei sistemi complessi

La teoria bioeconomica di Georgescu-Roegen[1] ha rappresentato innanzitutto una critica radicale alla teoria neoclassica. Essa ha mostrato i limiti, essenzialmente di natura entropica, a cui è soggetto il processo di crescita/sviluppo economico. Secondo la legge di entropia ogni attività produttiva comporta l’irreversibile degradazione di quantità crescenti di energia, e, sotto certe condizioni, anche di materia. Essendo la biosfera un sistema chiuso (scambia energia, ma non materia con l’ambiente) ne discendono due importanti conclusioni per l’economia: l’obiettivo fondamentale del processo economico, la crescita illimitata della produzione (e dei redditi), – essendo basato sull’impiego di risorse energetiche e materiali non rinnovabili –  risulta in contraddizione con le leggi fondamentali della termodinamica. Esso pertanto, va abbandonato o, comunque, radicalmente rivisto. L’evidenza empirica accumulatasi negli ultimi trent’anni è del resto, a questo proposito, robusta e concorde[2]. Certo i dati possono essere sempre messi in discussione, ma, ad uno sguardo d’insieme, essi manifestano con evidenza – a chi voglia leggerli senza pregiudizi – quanto il sistema produttivo globale sia – già oggi – insostenibile per la biosfera. La seconda conclusione è di natura metodologica: la rappresentazione pendolare del processo economico, presentata in apertura di ogni manuale di economia, secondo la quale la domanda stimola la produzione, e quest’ultima fornisce il reddito necessario ad alimentare nuova domanda, in un processo reversibile e apparentemente in grado di riprodursi all’infinito, andrà sostituito da una rappresentazione  evolutiva, in cui il processo economico risulti orientato lungo la freccia del tempo (irreversibilità). In generale questa visione bioeconomica ci ricorda l’inevitabile carattere fisico, materiale di ogni processo economico, riportando la scienza economica dalle rarefatte atmosfere della matematica, all’universo concreto del vivere:[3] la natura, contrariamente a quanto ritenevano gli economisti classici, Marx compreso,  non offre nulla gratis.

Nonostante questo contributo fondamentale per la creazione di una nuova economia, fondata su premesse epistemologiche profondamente diverse da quelle che caratterizzano la teoria standard, e nonostante il nome che Georgescu-Roegen decise di attribuire a questa teoria, bio-economia appunto, è evidente che queste conclusioni trovano il proprio fondamento epistemologico essenziale, più che nella biologia, nella termodinamica. A conclusione della mia ricerca sulla teoria bioeconomica di G.R.,[4] penso che se vogliamo giungere a delineare una “nuova economia” ecologicamente e socialmente sostenibile – in grado di dialogare con la biologia da un lato e con le scienze antropo-sociali dall’altro, occorra andare oltre la stessa bioeconomia di G.R. (e la sua epistemologia) verso un più compiuto approccio sistemico.

Quanto segue costituisce il tentativo di rivedere criticamente l’economia standard alla luce di alcuni  principi fondamentali che, senza contraddire le  leggi della termodinamica, caratterizzano i sistemi complessi. Questi sistemi, ed in particolare quelli biologici ed ecologici, presentano alcune caratteristiche formali sulle quali vale la pena di soffermarsi.

a ) I sistemi complessi sono dotati di un anello di feedback

Nell’ambito dei sistemi complessi le relazioni tra due o più sistemi assumono la forma di una relazione circolare. Si tratta di un aspetto di importanza fondamentale.  A seconda se l’effetto di retroazione va a rinforzare oppure a smorzare l’input originario, avremo a che fare con sistemi a retroazione positiva o negativa. Come noto, l’evoluzione nel tempo di queste due tipologie sarà diametralmente opposta. Mentre infatti i sistemi a retroazione negativa sono autocorrettivi, i sistemi dotati di un anello di retroazione positiva presentano caratteristiche esplosive. I sistemi biologici ed ecologici non perturbati rappresentano esempi di sistemi autocorrettivi. Anche l’impianto termico di un appartamento dotato di termostato rappresenta un esempio di sistema di questo primo tipo: se la temperatura esterna diminuisce, il termostato accende la caldaia fino a quando la temperatura non ritorna al livello precedente.  Qualcosa di simile avviene nell’organismo degli animali a sangue caldo, la cui temperatura corporea è mantenuta costante grazie alla variazione di molti altri parametri. Nei sistemi a retroazione negativa le variazioni avvengono sempre per assicurare la costanza di qualche variabile fondamentale, come la “sopravvivenza della specie, ” o la “tenuta del legame sociale”. Può essere interessante osservare che anche le organizzazioni complesse, come le imprese, le chiese o le associazioni ambientaliste, possono presentare modalità di comportamento del tutto analoghe. Variazioni nell’ambiente esterno, come ad esempio una nuova normativa o un’innovazione tecnologica, provocheranno modifiche nella struttura interna dell’impresa al fine di assicurare quella variabile complessa che è la “sopravvivenza dell’organizzazione.”

Viceversa i sistemi dotati di un anello di retroazione positiva presentano caratteristiche esplosive. La progressione esponenziale della popolazione o la spirale della violenza rappresentano buoni esempi di feedback positivo. Anche le “prestazioni totali di tipo agonistico” (potlàc) descritte da Marcell Mauss, si inseriscono in questa tipologia. All’interno del sistema economico operano molteplici circuiti di questo genere. La competizione tecnologica, sostenuta ed estesa dai recenti processi di globalizzazione, rappresenta probabilmente il caso più eclatante. Essa è alla base della cosiddetta forbice dei redditi, quel fenomeno, ormai incontestabile, per cui i ricchi diventano sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri.

La scienza economica tradizionale non coglie questi anelli di retroazione perché tende, seguendo la meccanica, a spiegare i fenomeni mediante catene lineari basate sul  principio di causa-effetto. Viceversa cogliere la presenza di questi anelli è di importanza fondamentale per interpretare le dinamiche evolutive di lungo periodo tra sistema economico-sociale e biosfera, e soprattutto per cogliere le potenziali derive autodistruttive del sistema.

Cinque tesi sui sistemi biologici

Passiamo ora a considerare alcune caratteristiche che riguardano più da vicino i sistemi biologi e gli ecosistemi:

1) I sistemi biologici non tendono alla massimizzazione di alcuna variabile

Negli organismi viventi la crescita è sempre soggetta a dei limiti. Negli organismi superiori essa è generalmente autocontrollata: essi raggiungono una certa dimensione, dopodiché alcuni segnali chimici interni alla creatura, ne arrestano lo sviluppo. In generale un valore troppo grande, come uno troppo piccolo, di qualsiasi variabile è pericoloso per l’organismo: troppo ossigeno comporta la combustione dei tessuti, come troppo poco porta ad uno stato di asfissia. La vita all’interno della biosfera, immersa nelle radiazioni  cosmiche, si sviluppa in un intervallo di frequenze di appena 4 ottave e mezzo, delle 40 che conosciamo – come V. I. Vernadskij volle sottolineare in apertura della sua opera magistrale[5]. Nel mondo biologico esistono ovunque delle soglie che, per quanto flessibili e – in certi casi – difficili da determinare, non possono essere superate.

Questo principio contrasta fortemente con gli assunti della teoria economica dominante, secondo la quale i comportamenti dei soggetti economici sono di tipo massimizzante. Una quantità maggiore di un bene è sempre preferita ad una quantità minore (ipotesi di non sazietà). A livello macroeconomico, nulla si oppone ad una crescita continua del reddito, dei consumi e della produzione, anzi essa è ritenuta primo ed essenziale obbiettivo di ogni politica economica[6].

Il problema della scala, a livello biologico, è essenziale. “L’elefante è afflitto dai problemi della grandezza, il toporagno da quelli della piccolezza. Ma per ciascuno esistono dimensioni ottimali: l’elefante non starebbe meglio se fosse molto più piccolo, né il toporagno si sentirebbe sollevato se fosse molto più grosso.”[7] Al contrario la teoria economica neoclassica non attribuisce alcuna importanza alle questioni legate alla scala. Se un accenno viene fatto è solo per richiamare il fenomeno delle così dette economia di scala, il principio secondo cui al crescere della produzione si riducono i costi medi. Un principio, dunque, la cui morale porta ad inseguire la crescita delle dimensioni delle strutture produttive (impianti, concentrazioni finanziarie) in vista di una riduzione dei costi.   Come vedremo, l’estensione dell’approccio sistemico alla teoria economica  porterà – viceversa – ad evidenziare numerosi problemi legati alla scala. Generalmente un aumento quantitativo di una variabile, come la dimensione dell’impresa, produce, oltre una certa soglia, alterazioni nella struttura di altri sistemi, come fenomeni di alienazione, dissoluzione del legame sociale o crisi ecologiche.

2) I sistemi biologici hanno una pluralità di fini

Se escludiamo quella variabile generale che è la sopravvivenza della specie, non possiamo affermare che i sistemi biologici perseguano la massimizzazione di un unico fine, rispetto al quale tutte le altre variabili sono subordinate. Nel mondo biologico, in particolare i  mammiferi,  presentano un sistema di valori multidimesionale.[8]

Anche questa caratteristica contrasta con gli assunti  della teoria economica dominante. Alcune ipotesi specifiche sono state introdotte al fine di  garantire che il benessere prodotto dal consumo di qualsivoglia bene sia ordinabile lungo un medesimo indice monodimensionale: l’utilità.

Come è stato dimostrato,[9] la possibilità di ordinare una varietà di “panieri” lungo un unico indice unidimensionale,  cade quando si abbia a che fare con un ordinamento delle preferenze di tipo  “lessicografico,”  in cui cioè non vi è sostituibilità fra i diversi beni. L’esperienza di tutti i giorni dimostra che questa è una situazione possibile: l’accesso ad internet non può essere un buon sostituto per chi non ha accesso all’acqua potabile,[10] così come il pane distribuito dalle associazioni umanitarie non può soddisfare chi ha un disperato bisogno di giustizia e di dignità. Contributi provenienti dai più svariati campi disciplinari, dalla biologia all’antropologia, dalle scienze sociali alla psicologia, ci insegnano che un autentico benessere è il portato di molteplici dimensioni tra loro irriducibili.[11] Come vedremo l’introduzione di una concezione multidimensionale del benessere consente di spiegare uno dei paradossi fondamentali in cui cade la teoria neoclassica del consumatore: il così detto paradosso del benessere.

3) I sistemi biologici presentano una combinazione di comportamenti di tipo competitivo e cooperativo

Per l’economista i sistemi socioeconomici sono caratterizzati dalla presenza di comportamenti esclusivamente competitivi. Una troppo facile lettura della teoria evoluzionista ha portato ad una rappresentazione dell’universo del vivente dominato esclusivamente dalla “lotta per la sopravvivenza” e tale concezione è stata estesa ai sistemi socioeconomici (darwinismo sociale).  E’ curioso osservare, viceversa, come nella letteratura biologica sovietica, prevalessero le relazioni cooperative, simbiotiche tra le specie, la competizione era quasi assente e la natura diveniva metafora della cooperazione universale. Credo che i tempi siano ormai maturi per andare oltre queste letture ideologiche e strumentali: è oggi chiaro ai biologi che negli ecosistemi coesistono comportamenti di tipo competitivo e cooperativo e che entrambi sono essenziali per la conservazione delle specie. Allo stesso modo anche tra i soggetti economici coesistono  relazioni di tipo competitivo e cooperativo, anzi queste ultime – come vedremo – divengono imprescindibili per compensare alcune spirali autodistruttive che caratterizzano i sistemi capitalistici.

4) In un contesto espansivo sono i comportamenti competitivi che generalmente favoriscono il successo e lo sviluppo della specie, viceversa in contesti non espansivi (di equilibrio) sono i comportamenti cooperativi che generalmente favoriscono il successo

Secondo Kenneth Boulding[12] le interazioni all’interno degli ecosistemi possono assumere essenzialmente due modalità: una fondamentalmente espansiva, (colonizing mode) ed una  invece non espansiva o di equilibrio (equilibrium mode). La prima è caratterizzata da condizioni di abbondanza di risorse e di nuovi spazi. In essa gli organismi si espandono verso nuovi ecosistemi, verso nuove nicchie da colonizzare. Nella seconda invece, data l’assenza di nuovi territori liberi o sottoutilizzati, gli organismi si assestano in una posizione di equilibrio. La biologia ci offre questa lezione fondamentale e cioè che non vi è un comportamento buono per tutte le stagioni, ma al contrario se muta il contesto ambientale mutano le strategie che favoriscono lo sviluppo della specie.

A differenza di quanto afferma la teoria liberista, “massimizzare” la competizione,  attraverso la concorrenza “perfetta” tra i soggetti economici, non produce necessariamente risultati ottimali. E’ probabile che soggetti o comportamenti particolarmente competitivi risultino vincenti  in contesti espansivi. Non a caso l’homo sapiens si è evoluto  attraverso la colonizzazione e la conquista continua di nuovi territori, in competizione con altre specie. Aggressività e atteggiamenti competitivi sono dunque profondamente inscritti nel suo percorso evolutivo. In tempi più recenti, l’avventura della modernità (con la sua cultura individualista e competitiva) ha avuto origine e si è sviluppata in un contesto espansivo caratterizzato dalla conquista di nuovi continenti  (America, Indie, ecc.) e di nuovi spazi intellettuali (scienza, tecnica, ecc.). Non a caso, infine, lo spirito economico americano, anch’esso particolarmente individualista e competitivo, si è forgiato nell’esperienza dell’espansione verso il West. Tuttavia in condizioni non espansive, quali quelle a cui la specie umana si sta necessariamente approssimando, in virtù dell’ormai quasi completa colonizzazione degli ecosistemi terrestri, sono i comportamenti cooperativi a dare i migliori risultati. La cultura classica cinese può costituire una interessante controprova: essa si  è forgiata in un ambiente non espansivo (si pensi alla Grande Muraglia) e non a caso essa presenta tratti fortemente non-individualisti e non-competitivi.

Questo ci porta ad un diverso modo di considerare la pressione competitiva negli attuali sistemi socioeconomici:  la presenza di un grado troppo elevato di competizione, così come di uno troppo basso, saranno da considerarsi generalmente pericolosi per il sistema. La natura ci insegna che perseguire l’efficienza attraverso la competizione esasperata come unico obiettivo dell’attività economica, non solo è la conseguenza di una concezione riduttiva dell’essere umano, ma porta facilmente, come vedremo, verso comportamenti distruttivi per la specie.  Nuove forme di schiavitù, distruzione dell’ambiente, dilagare della corruzione finanziaria, possono rappresentare alcuni esempi di tali effetti distruttivi. A controprova di ciò basti pensare quanto frequentemente in natura si osservano comportamenti ridondanti o palesemente inefficienti.

5) In un contesto non espansivo, un certo grado di competizione tra specie diverse favorisce lo sviluppo degli ecosistemi, al contrario la competizione tra i membri di una stessa specie (comp. intraspecifica) generalmente danneggia e dunque riduce le possibilità di sopravvivenza della specie stessa.

Come mai nel lungo cammino dell’evoluzione l’operare della pressione competitiva tra le specie ha prodotto un’incredibile espansione della biodiversità mentre, nel contesto economico globale, la pressione competitiva sembra generare uniformazione e perdita di diversità? La risposta può essere individuata nel fatto che mentre in natura la competizione avviene prevalentemente tra specie diverse, nel sistema economico globale essa avviene tra simili.

Questa situazione, che i biologi definiscono di  competizione intraspecifica,  trova una interessante affinità con quella che l’economista  F. Hirsch ha definito competizione posizionale[13]. Immaginiamo un mercato oligopolistico maturo, in cui cioè operano alcuni grandi imprese che producono un bene omogeneo. L’obiettivo di ciascuna  impresa è quello ottenere la leadership di mercato.   Il caso Nike, ormai giunto all’orecchio del grande pubblico, può servire da esempio per illustrare questo punto.

Nell’Aprile del 1998 la multinazionale, leader del settore, è stata citata in giudizio con l’accusa di aver tenuto segreti i risultati di un rapporto presentato da una società di consulenza sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche nelle quali veniva appaltata la produzione di scarpe. Nel rapporto si leggeva tra l’altro che: “in alcuni reparti della fabbrica Tae Kwang Vina, i lavoratori erano esposti a sostanze cancerogene in concentrazione 177 volte più elevata di quella ammessa dalla legge e che il 77% dei dipendenti soffriva di problemi respiratori”. Si tenga presente che in Indonesia, dove veniva appaltato buona parte della produzione Nike, gli operai lavorano mediamente 270 ore al mese in cambio di un  salario di circa 40 dollari, (15 centesimi l’ora) con i quali è appena possibile coprire il 30% dei bisogni vitali di una famiglia di quattro persone. Complessivamente il costo del lavoro nelle fabbriche di calzature incideva sul prezzo prodotto finito per meno dello 0,2%[14].

Che cosa spinge dunque una multinazionale multimiliardaria a  schiacciare il costo del lavoro sino a questi livelli parossistici, rischiando  di compromettere la propria immagine, se non la paura, o piuttosto la certezza, che se non sarà lei saranno gli agguerriti rivali a fare altrettanto? Che cosa spinge un’azienda a staccare un assegno di 20 milioni di dollari l’anno ad una nota star dell’atletica per prestare la sua immagine negli spot pubblicitari (cifra che avrebbe consentito un raddoppio dei salari per tutti i lavoratori indonesiani[15]) se non la rincorsa verso l’alto delle spese pubblicitarie sospinta dalla competizione posizionale?

L’effetto di una selezione intraspecifica esasperata[16], nel lungo termine, è dunque sempre quello di favorire i “peggiori”. Per quanto alcuni economisti si accorsero presto che “la moneta cattiva scaccia quella buona” non si è tenuto in alcun conto il prezioso insegnamento contenuto in questa massima, finendo con l’attribuire alla concorrenza una valenza comunque positiva. Al contrario l’acuirsi delle pressioni competitive legate ai processi di globalizzazione offrono continui nuovi esempi di come la competizione tra simili, superata una certa soglia, produce uniformazione, sfruttamento, distruzione dell’ambiente oltre a varie forme di malessere sociale.


Parte seconda: Il modello stocks e flussi

Teoria della produzione

La teoria neoclassica della produzione è basata – come noto – su una funzione aggregata di produzione del tipo:

Q =  A f (K, L, R)

Ciò significa essenzialmente che la produzione (Q) cresce al crescere della quantità di lavoro (L), dello stock di capitale (K) e del progresso tecnologico (A).

Soprattutto essa assume che sia possibile produrre un qualsiasi quantità di prodotto, (Q0) riducendo a piacimento le risorse naturali (R), purché venga aumentato sufficientemente lo stock di capitale.[17] In altre parole, la teoria neoclassica assume completa sostituibilità fra risorse naturali e capitale fabbricato dall’uomo. Una assunzione che non a caso, è anche alla base della definizione neoclassica di sviluppo sostenibile. Ciò significa che – come ha affermato il premio Nobel per l’economia Robert Solow – “non c’è in linea di principio alcun problema, il mondo può, in effetti, andare avanti senza risorse naturali”[18].

E’ possibile dimostrare, tuttavia, che tale assunzione viola le leggi della termodinamica. Se, come affermano i neoclassici, la funzione di produzione altro non è che una ricetta, Solow e Stiglitz implicitamente affermano che sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi una pizza più grande semplicemente utilizzando un forno tecnologicamente più avanzato, oppure due cuochi al posto di uno. Com’è evidente, questa formulazione semplicemente non rispetta il bilancio dei materiali: un modo diverso di leggere la prima legge della termodinamica. E’ evidente infatti che il flusso di materia che entra complessivamente nel processo di produzione, deve coincidere con il flusso di materia in uscita (beni prodotti + rifiuti)  e che – pertanto – un aumento delle quantità  prodotte implica un aumento del prelievo di risorse dagli ecosistemi.

Se un  errore così macroscopico esprime, da un lato, l’incapacità della teoria neoclassica di fare i conti con i fondamenti biofisci del processo economico, dall’altro esso rivela un disagio ancor più profondo. In termini filosofici esso affonda le proprie radici nell’incapacità di distinguere l’essere dal divenire,  in altre parole di includere la variabile tempo all’interno del processo economico. Ecco dunque che la teoria della produzione neoclassica  confonde nella stessa funzione ciò che viene trasformato – le risorse naturali – con ciò che è agente di trasformazione (il lavoro e il capitale), confonde cioè, i flussi con gli stocks implicati nel processo. Mentre i flussi in input (la farina nell’esempio) subiscono un processo di trasformazione e pertanto non sono più riconoscibili come tali al termine del processo, i secondi (cuochi e forno) nonostante non siano esenti – come vedremo – dal problema del cambiamento, sono ancora presenti e riconoscibili come tali al termine del processo. In sostanza stock e flussi presentano un diverso comportamento rispetto al tempo, che come è facile intuire, rappresenta la variabile chiave per affrontare i problemi connessi alla sostenibilità di un processo. Georgescu-Roegen, che ha perfettamente compreso quanto il problema del cambiamento fosse centrale per una corretta comprensione del processo economico, non a caso ha posto la distinzione tra fondi e flussi a fondamento della propria analisi del processo di produzione.

E’ ad essa pertanto che si rifà il nostro modello. Sin qui la nostra analisi segue, ed anzi si innesta, sulla teoria della produzione di Georgescu-Roegen. Tuttavia essa rappresenta a tempo stesso un tentativo, di superare i limiti epistemologici del modello roegeniano, giungendo a un approccio compiutamente sistemico. Il macro-modello che qui introdurremo presenta quindi alcune significative differenze rispetto al modello fondi-flussi.

A differenza dei fondi introdotti da Georgescu-Roegen[19] che erano costanti in quantità e qualità, gli stocks rappresentano per noi sistemi complessi, dove il solo elemento invariante è individuabile nella capacità del sistema di mantenere inalterata la propria struttura organizzativa a fronte di perturbazioni esterne[20].

Il macro modello qui introdotto presenta dunque quattro tipologie di stocks (o sistemi) coinvolti nel processo di produzione, ordinati secondo livelli crescenti di complessità.

La biosfera o capitale naturale, (Kn) inteso come insieme di materia /energia organizzata (sistemi biogeochimici), rappresenta la prima tipologia considerata. E’ evidente infatti che parti sempre più rilevanti della biosfera sono coinvolte nel processo di produzione in quanto agenti di trasformazione. Ciò è particolarmente evidente in quel particolare processo che è la produzione agricola, impensabile separatamente dalla biosfera, tuttavia non è difficile rendersi conto che qualsivoglia processo di produzione – anche il più artificiale, richiede non solo uno spazio fisico (la “terra” in senso ricardiano) ma anche la partecipazione attiva degli ecosistemi o di alcuni loro funzioni (gravità,  cicli dell’acqua e del carbonio ecc.).

La seconda tipologia di stock è costituita dal capitale (K) tradizionalmente inteso, ossia l’insieme delle attrezzature, degli impianti utilizzati nel processo di produzione. Su questa seconda tipologia non vi sarà molto da aggiungere, se non osservare che il capitale, in quanto materia/energia organizzata, sarà normalmente ancora presente al termine del processo, e dunque rappresenta a  buon diritto  uno stock, e non flusso, come considerato dalla teoria standard.

La terza tipologia  è rappresentata dallo stock di lavoro (L), inteso come forza lavoro organizzata. Con questa espressione intendiamo l’insieme di quelle strutture sociali,  sia di natura formale che informale, che nell’ambito delle organizzazioni sociali, partecipano al processo di produzione. Non c’è dubbio che, così inteso, il lavoro rappresenta una stock, piuttosto che un flusso, come normalmente considerato dalla teoria standard. E’ vero che, come ha sottolineato K. Boulding, la forza lavoro, come del resto il capitale, non è altro che un particolare mix di materia, energia e conoscenze[21]. Tuttavia difficilmente potremo prescindere da queste categorie, e non solo in quanto profondamente sedimentate nell’analisi economica (si pensi alla questione della distribuzione del reddito), ma in quanto ancora fondamentali da un punto di vista antropologico, sociale e politico.

Un approccio compiutamente sistemico non mancherà di considerare un quarto livello, ossia il sistema di conoscenze/valori (noosfera). Questa dimensione, trascurata dall’analisi tradizionale, è invece di importanza decisiva. Da un lato, in termini puramente funzionali,  i sistemi di conoscenze, tacite e non, influiscono in modo decisivo sulla capacità produttiva di una società come ben dimostrato in letteratura. Ma soprattutto valori e immaginario condizionano, come vedremo, le forme economiche e sociali di produzione della ricchezza, non meno di quanto sono da queste influenzate.

Come per la teoria standard, il modello prevede in input un flusso di risorse provenienti dalla biosfera (r)  e cui si aggiunge un flusso di conoscenze/informazioni provenienti dell’esterno del sistema produttivo (n). Prodotti finiti (qi) e scarti (wi) costituiscono le due tipologie di flussi in uscita[22].

Ricordiamo che ciò che caratterizza un flusso è il fatto di subire una  trasformazione nell’ambito  del processo produttivo. Esso pertanto  attraversa la frontiera del processo una sola volta. Viceversa ciò che caratterizza uno stock è l’ipotesi secondo cui esso sia ancora presente al termine del processo. Per fare sì che tale ipotesi sia rispettata, il modello prevede che un certo ammontare di flussi vengano impiegati affinché i diversi sistemi siano in grado di mantenere la propria struttura organizzativa a fronte di pressioni esterne.  Per richiamare l’esempio precedente un certo numero di pizze sarà necessario per mantenere in buona salute i pizzaioli, così come risorse naturali e lavoro provenienti dall’ambiente esterno verranno comunemente impiegate per impedire il logoramento degli impianti.

Il fatto che, oltre ai flussi, un certo stock (ad esempio un certo ammontare di forza lavoro organizzata) sia necessario al  mantenimento di un altro stock (ad esempio impianti) ci mostra alcuni aspetti interessanti del modello. Innanzitutto il fatto che, all’interno del sistema produttivo, le diverse tipologie di stock sono in reciproca relazione le une con le altre. Questo sarà estremamente significativo, come vedremo, per comprendere la dinamica evolutiva del macro-sistema. In secondo luogo la produzione di ciò che comunemente definiamo servizi (dal taglio dei capelli, ai servizi finanziari, assicurativi, di consulenza ecc.) non è altro, nei termini del nostro modello, che una interazione tra due tipologie di stock (od una interazione tra due sottosistemi dello stesso stock). L’informatizzazione di un’impresa – ad esempio – può essere vista come l’applicazione di un’insieme strutturato di conoscenze, (e di lavoro) ad un certo stock di capitale ecc. Ciò è interessante da un punto di vista bioeconomico, poiché la produzione di servizi, a differenza della produzione di beni materiali, non implica l’utilizzo di flussi di risorse provenienti dall’ambiente esterno, se non per il mantenimento degli stock implicati nel processo. Questo spiega perchè la produzione di servizi sia generalmente meno impattante in termini ecologici della produzione di nuovi beni.

Come ha osservato H. Daly, ciò che il modello fondi-flussi, (già nella versione di Georgescu-Roegen) pone in evidenza è che: “ciò che chiamiamo produzione è in realtà la trasformazione di risorse in prodotti dotati di utilità e in prodotti di scarto. Lavoro e diverse tipologie di “capitale” sono agenti di trasformazione, mentre le risorse naturali, (materia ed energia), sono ciò che viene trasformato (i flussi che entrano nel sistema).  (H. Daly, 1999, p. 20). Ciò dimostra come non si possa, riducendo la quantità di farina (flusso di risorse naturali), produrre uno stesso numero di pizze semplicemente aumentando il numero dei pizzaioli o dei forni (stocks), così come non si può produrre un dato ammontare di automobili riducendo l’impiego di metallo (anche se si utilizzano i più avanzati robots). L’errore in cui sono incorsi i teorici neoclassici deriva dall’avere indebitamente esteso agli n fattori della produzione quel principio di sostituibilità che vale solamente tra lavoro e capitale (sebbene con le note ripercussioni sociali). A ben vedere infatti lavoro e capitale non sono altro che una combinazione delle stesse tipologie di elementi: materia, energia e conoscenze. Ma tra questi tre diversi livelli  – materia, energia e conoscenze – la relazione  è fondamentalmente una relazione di complementarietà e non di sostituibilità. .

Un approccio  sistemico alla teoria del consumatore

Estendendo  l’approccio stocks e flussi alla teoria del consumatore si intende muovere qui verso un’analisi sistemica del processo economico.[23] Come vedremo i sistemi coinvolti nel processo di creazione del benessere sono gli stessi che abbiamo incontrato nell’analisi del processo di produzione. Questo ci ha incoraggiato nel tentativo di  integrare il processo di produzione e consumo in un unico macro-sistema.

Come noto, la teoria neoclassica affronta il comportamento del consumatore partendo da una funzione di utilità del tipo:

U = f (x1, x2, ….xn)

Dove cioè l’utilità del consumatore viene a dipendere esclusivamente dalle quantità dei “beni” consumati dal soggetto. In altre parole il benessere degli individui è ricondotto al flusso di beni che essi sono in grado di consumare. Ma se guardiamo alla funzione di consumo da un punto di vista bioeconomico, ci accorgiamo che questa impostazione soffre di quello che Georgescu-Roegen chiamava il “complesso del flusso”: in altre parole essa considera esclusivamente i flussi che attraversano il processo e trascura invece gli stocks, i quali tuttavia acquisiscono nel processo di creazione del benessere un ruolo di grande rilievo[24].

Il modello che intendo proporre prevede quattro tipologie  di stocks[25]: la biosfera o capitale naturale (KN), il capitale (o ricchezza) posseduta dai “consumatori” sottoforma di beni durevoli (KC), il sistema delle relazioni sociali rilevanti ai fini del benessere (S) ed infine il sistema delle conoscenze e valori  o noosfera, (N).

Per comprendere in che senso la biosfera assume un ruolo significativo nell’ambito del processo di creazione del benessere dobbiamo immaginare cosa sarebbe della nostra qualità della vita se non disponessimo dello strato di ozono a proteggerci dalle radiazioni ultraviolette, o se le foreste non provvedessero a fornirci dell’ossigeno di cui abbiamo bisogno. Gli stessi consumatori, considerati nella loro dimensione biofisica, fanno parte di questo stock nel senso che ciascun soggetto, per poter godere di qualsivoglia “bene”, sia esso una partita di calcio o un abito firmato, deve essere posto in condizione di preservare il proprio equilibrio biofisico.   Per quanto il ruolo del capitale naturale sia più evidente nel processo di produzione (sia come fonte di risorse che come agente di trasformazione)  un’analisi più attenta ci renderà consapevoli del fatto che anche l’attività di consumo presuppone generalmente uno spazio fisico e soprattutto il mantenimento degli equilibri ecologici.

Il capitale naturale, inoltre, costituisce una fonte diretta di benessere per i “consumatori”. Il piacere di abbeverarsi ad una fonte di montagna o la semplice contemplazione di un paesaggio alpino, costituiscono da sempre una fonte di gioia per gli esseri umani, che si genera, si noti bene, indipendentemente dalla produzione e dal consumo di beni. Ciò che desidero mettere in luce è che una parte importante  del benessere/felicità a cui gli esseri umani possono attingere dipende da uno stock (il capitale naturale) che già esiste e che pertanto non richiede alcuno sforzo produttivo (sia  in termini di “lavoro” che di impiego di capitale) se non quello legato alla sua conservazione.

È importante rilevare che di questa prima tipologia di stocks fanno parte i cosiddetti beni comuni: acqua, aria, terra, patrimonio genetico, ecc. la cui crescente rilevanza è oggi giustamente sottolineata da un’ampia letteratura.[26] Non a caso essi sono sottoposti a un pervasivo sforzo di privatizzazione da parte del capitale internazionale, suscitando forti resistenze da parte delle popolazioni e delle comunità locali.

La seconda tipologia di  stock è costituito dalla ricchezza (capitale) posseduta dai “consumatori” (KC) sottoforma di beni durevoli. In questa tipologia rientrano in particolare i beni  immobiliari.  Quello che la presenza di questo stock  vuole sottolineare è che, (per quanto il ruolo del capitale sia più noto come fattore di produzione), esso svolge un compito altrettanto significativo come “agente” di benessere.  Per comprendere questo ruolo basti pensare che la ricchezza accumulata dalle famiglie sottoforma di beni durevoli, rappresenta una fonte “diretta” di benessere /felicità, indipendentemente dal flusso di beni che queste famiglie sono in grado acquistare sul mercato. Il piacere che traiamo, ad esempio, stando seduti nel giardino di casa leggendo un libro, ha certamente richiesto in passato una attività di produzione, ma esiste ora sottoforma di ricchezza. Tali beni durevoli richiedono, per essere goduti, solo di un modesto flusso di materia/energia (xn., xi)  per mantenere la casa e il libro nelle medesime condizioni in cui sono entrate nel processo.

Che il godimento della vita sia una funzione della ricchezza, e dunque degli stocks prima ancora che del reddito, (flusso) costituisce una  importante distinzione rispetto alla teoria standard[27]. Da un punto di vista bioeconomico, infatti, ogni bene durevole costituisce un prezioso patrimonio di materia-energia organizzata, capace di produrre benessere con apporti ulteriori di materia-energia molto modesti. Viceversa tale patrimonio viene, almeno in parte, irreversibilmente perduto ogni volta che il bene viene distrutto per acquistarne uno “nuovo”.

Vi è una terza tipologia di sistemi che intendiamo considerare: Il terzo stock è costituito dalle  strutture sociali o relazionali rilevanti nella creazione e nel mantenimento del benessere (S). Molti servizi offerti dalla famiglia ad esempio, come Marx si era ben accorto, giocano un ruolo centrale nella ri-generazione della forza lavoro. Di grande rilievo, inoltre, il ruolo che, nelle economie avanzate, le relazioni sociali svolgono rispetto alla soddisfazione sul lavoro, anch’esse trascurate dall’analisi tradizionale[28].  La recente ricerca antropologica ha mostrato inoltre il ruolo rilevante che, in molte società in particolare del Sud del mondo, le relazioni di reciprocità rivestono per il benessere delle comunità. Questo stock comprenderà dunque l’insieme di quelle relazioni sociali o “neoclaniche” che consentono alle famiglie di sopravvivere (e a volte di essere felici!) pur con redditi monetari estremamente bassi (Latouche, 1993). Esso comprenderà inoltre, nei paesi più ricchi,  la ricchezza sociale costituita dalle organizzazioni che compongono il variegato universo dell’ “economia solidale” o civile (Laville, 1998, Zamagni, 1998). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a sistemi trascurati dall’analisi tradizionale, e invece estremamente rilevanti al fine del mantenimento e della creazione di benessere. Inoltre questo tipo di “strutture relazionali” possiedono caratteristiche molto peculiari da un punto di vista bioeconomico. Essi infatti necessitano, per essere mantenute, di un impiego generalmente ridotto di materia/energia.

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Il quarto livello o sistema è quello delle conoscenze o dei valori (noosfera). Se guardiamo a questo stock dal punto di vista individuale, esso comprende quella che gli economisti definirebbero la “struttura delle preferenze” del consumatore. Tuttavia occorre rendersi conto che tali preferenze non sono definite dal singolo in modo autonomo; esse hanno piuttosto natura sistemica. In particolare queste verranno a definirsi sulla base dei valori e delle preferenze degli altri soggetti, oltre che dall’interazione con le forme di organizzazione sociale e della produzione. Da un punto di vista aggregato esso comprende quello che potremmo definire, con Castoriadis, l’immaginario collettivo.

I flussi in input sono costituiti dalle quantità di beni e servizi (xi) generalmente provenienti dal mercato, analogamente a quanto previsto dalla teoria standard, e dal flusso di risorse naturali xr,, proveniente dalla biosfera. Come noto, i beni di consumo sono sottoposti ad un irreversibile processo di degradazione entropica. Pertanto una certa quantità di materia/energia risulterà non più utilizzabile al termine del processo. Per tenere conto di ciò viene introdotto – in output – un flusso di scarti/rifiuti (wi). Ad esso si dovrà aggiungere quel flusso di benessere/godimento della vita (W) che, conformemente a quanto G.R. Aveva già osservato, costituisce il vero output dell’attività economica.

Ciò che caratterizza l’approccio sistemico alla teoria del consumatore è che, contrariamente a quanto affermato dalla teoria standard, i flussi di beni e servizi non sono in grado, da soli, di produrre alcun benessere. A ben vedere infatti, il benessere è il portato dell’interazione tra stocks e flussi. L’ipotesi standard secondo cui l’utilità dipendeva esclusivamente dai flussi di beni e servizi in possesso del consumatore, era forse giustificabile in un contesto (quello degli albori della società industriale) in cui nulla minacciava seriamente il mantenimento degli stocks, sia di natura ecologica che sociale. Inoltre, il perdurare di relazioni sociali di tipo tradizionale assicurava una certa continuità nella trasmissione dei valori.  E’ ora evidente che queste condizioni “di  equilibrio” –  non sono in alcun modo garantite.

Questo approccio consente inoltre di interpretare alcuni cruciali  paradossi  che si verificano alla frontiera tra biosfera, economia e società e che sfuggono alle maglie dell’analisi tradizionale. Un paradigma scientifico resiste fino a quando i paradossi in cui cade non sono tali da minarne le stesse fondamenta. E’ questa crediamo la situazione in cui versa attualmente il paradigma neoclassico. Sarà pertanto nostro scopo prioritario quello di mettere in luce i due più evidenti paradossi in cui cade la teoria ortodossa, mostrando come essi sono invece facilmente interpretabili nell’ambito dell’approccio sistemico.

Il paradosso del benessere

Vorrei ora analizzare alcune fondamentali dinamiche evolutive del sistema socio-bioeconomico. Seguendo l’approccio sistemico questo significa mettere in evidenza innanzitutto quelle relazioni circolari che possono condurre il sistema lungo una spirale auto-accrescitiva. Occorre dunque individuare i principali circuiti retroattivi capaci di spiegare quel fenomeno paradossale per cui l’uomo occidentale, cercando felicità e benessere, trova in realtà povertà crescente,  emarginazione, guerre e varie forme di malessere sociale ed ecologico.

Il fatto che la crescita nella produzione (PIL) e nei consumi di beni e servizi, oltre una certa soglia, non sia più accompagnata da un aumento del benessere, ma al contrario da una sua riduzione è oggi attestato da numerosi indicatori. Tra questi, un indice semplice e significativo è il così detto indice del Progresso Genuino (Genuine Progress Indicator, GPI). Questo indice semplicemente scorpora dal PIL alcune voci di costo sociale ed ambientale, attribuendogli segno negativo. Esso mostra chiaramente, con riferimento all’economia americana, a partire dagli anni Ottanta, un andamento decrescente, con una chiara inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti.[29]

Illustrerò ora brevemente alcune delle principali spirali auto-accrescitive che stanno alla base del paradosso del benessere:

La spirale sviluppo-povertà

A ben guardare, tutta la storia della modernità può essere letta come la storia di una grande espansione: militare, geografica, tecnico-scentifica, ma soprattutto economica. È la storia dello sviluppo[30], appunto, e della sua spina dorsale: la crescita economica. Negli anni del dopoguerra questa storia raggiunge il suo apice. Sono gli anni del boom economico, della produzione di massa e del patto keynesiano tra capitale e lavoro.

Naturalmente non si vogliono negare qui i miglioramenti nelle condizioni materiali di vita che si sono avuti, quantomeno nei paesi occidentali, in questo periodo, e particolarmente nel ventennio 1955-75. Tuttavia, quantomeno a partire dagli anni Ottanta, è diventato sempre più evidente che, a dispetto delle pretese universaliste dell’Occidente, la ricetta dello sviluppo non era estensibile a tutti.[31]

I dati di cui disponiamo a questo proposito parlano chiaro: il Prodotto Interno Lordo (PIL) dell’intero continente africano è, ancora oggi, inferiore al 2% del PIL globale. È ormai evidente che l’Africa, e molti paesi dell’Asia, restano al palo.

In generale, a livello planetario, le differenze di reddito tra i più ricchi e i più poveri si allargano drammaticamente. Un solo dato per tutti: il reddito annuale delle 225 persone più ricche del pianeta supera la somma dei redditi annuali del 47% della popolazione mondiale (due miliardi e 500 milioni di persone).[32] Lo scenario globale è sempre più quello in cui ricchezza e benessere coesistono con un vasto panorama di esclusi dal banchetto della società di consumo. Quali che siano le cifre di cui ci si serva per drammatizzare questa realtà (2 miliardi e 737 milioni di persone che vivono con meno di due dollari al giorno o un bambino morto ogni 3 secondi) esse stanno a testimoniare che il grande programma dello sviluppo non è riuscito a sradicare la piaga della povertà ma che anzi le sorti dei più ricchi e dei più poveri si allargano drammaticamente.  A questo panorama dei radicalmente esclusi si affaccia, all’interno dei paesi ricchi, una pluralità di percorsi di disagio ed emarginazione. I “nuovi poveri” si contano ormai in oltre 100 milioni tra Europa e Stati Uniti.

Per quale motivo, dunque, la grande macchina dello sviluppo, il grande sogno occidentale di offrire condizioni di vita materiale decenti e in continuo miglioramento per l’intera umanità si è infranto?

Per quanto il quadro sia complesso, si può individuare una ragione di fondo: il progresso tecnologico e dunque la produttività ha raggiunto livelli tali che una minoranza è in grado di produrre tutto ciò di cui abbisognano le economie mondiali. Gli altri, i “naufraghi” dello sviluppo (intesi sia come individui che come interi stati nazione), sono incapaci di prendere parte a questo gioco poiché non sono sufficientemente efficienti, competitivi. Di più:  questo processo di esclusione è il frutto di una dinamica auto-accrescitiva che prende le mosse dallo sviluppo stesso. La crescita economica comporta infatti maggiori investimenti. Maggiori investimenti in ricerca, capitale umano ecc. comportano avanzamenti tecnologici, in altre parole  maggiore produttività. Ma più elevati livelli di produttività significano minori costi unitari cioè maggiore competitività. Ecco dunque che chi riuscirà a risultare vincente nella dinamica competitiva conseguirà un ulteriore incremento della produzione e dei profitti, alimentando così la spirale auto-accrescitiva.

Chi crederebbe oggi alla possibilità che il Bangladesh entri nella corsa tecnologica, inizi a produrre telefonini, computer o anche, più semplicemente, automobili, abbigliamento, servizi turistici a prezzi competitivi con risorse proprie? Ormai si sa che questi paesi non hanno niente di interessante da fornirci; sono, per dirla con Latouche, “buoni per la demolizione”.

In conclusione, la dinamica sistemica del progresso tecnologico porta non solo ad una drastica riduzione di benessere per i più poveri e gli esclusi, ma anche alla diffusione dell’idea che l’economia capitalista è profondamente ingiusta. E poiché, come credo, la percezione di aver subito una ingiustizia strutturale, prima ancora della povertà stessa, lede alla radice il legame sociale, ecco che la cieca fiducia nella crescita e nello sviluppo producono in realtà una progressivo sfaldamento del tessuto delle relazioni sociali (stock S) e dunque del benessere.

La spirale della crisi ecologica

A questo punto poche parole basteranno per illustrare la perdita di benessere legata all’attuale crisi ecologica.

Come Georgescu-Roegen aveva ben compreso, la crescita continua della produzione comporta la degradazione di quantità crescenti di materia energia, oltre alla diffusione nell’ecosistema di sostanze inquinanti che ne perturbano gli equilibri. La crescente pressione sugli ecosistemi dovuta alla crescita economica porta nel tempo ad una perdita di resilienza degli ecosistemi stessi (stock B). In altre parole, superata certi valori di soglia nell’immissione di sostanze inquinanti, il tessuto delle relazioni ecologiche si sfalda, sino  al collasso dell’ecosistema.

L’evidenza empirica circa l’insostenibilità ecologica dello sviluppo è del resto ormai robusta e concorde. Basti ricordare che l’impronta ecologica – ossia l’area degli ecosistemi terrestri e acquatici richiesta per produrre le risorse che la popolazione umana consuma e per assimilare i rifiuti – degli USA è circa 5 volte superiore alla disponibilità media globale. In altre parole, se si estendesse a livello globale il livello di consumi dell’americano medio, occorrerebbero circa cinque pianeti per sostenerne il livello di vita. I valori per i paesi europei sono circa due-tre volte superiori alla disponibilità media globale. Si consideri che la Cina ha ancora un’impronta ecologica pro capite oltre sei volte inferiore a quella americana.[33]

Si noti che gli elementi e le relazioni che costituisco gli stock della biosfera e che risultano degradati  dalla crescita economica,  altro non sono che i così detti “beni comuni” (acqua, aria, terre fertili, risorse naturali ed energetiche, biodiversità ecc.). L’esaurimento, o il progressivo degrado, di questi beni comuni, spiega dunque la perdita di benessere, in particolare per le popolazioni più povere del pianeta, che fanno di tali beni una fonte essenziale per la propria sopravvivenza.  E’ possibile che a tale perdita di benessere, gli individui reagiscano attraverso un aumento nel consumo di beni, con evidenti finalità compensatorie, aggravando così le condizioni della crisi ecologica.

Il paradosso del progresso tecnologico

Da quando la questione ecologica si è posta con crescente insistenza all’attenzione generale, cioè quantomeno dagli anni Settanta, gli economisti standard sono stati chiamati a difendere il corpus della teoria economica ortodossa da chi paventava il profilarsi di limiti ecologici o sociali allo sviluppo[34]. Pur nella diversità delle argomentazioni, le risposte  degli scienziati mainstream  ruotano attorno a un medesimo fulcro teorico: il concetto di progresso tecnologico. L’idea fondamentale è che il progresso tecnologico consentirà, come già avvenuto in passato, di oltrepassare continuamente i limiti.

Con riferimento più specifico alla questione ecologica, il progresso tecnologico consentirà, secondo gli economisti standard, di produrre quantità crescenti di beni con un uso sempre minore di materia ed energia (ecoefficienza). Questo fenomeno, noto anche in letteratura come dematerializzazione del capitale, ha suscitato grande interesse negli economisti, che hanno visto nei recenti successi della new economy la più evidente manifestazione della sua efficacia.[35] Il passaggio dal capitalismo “fordista”, con le sue fabbriche fumose, alla civiltà on line comporterebbe, secondo questi autori, la transazione definitiva verso un’economia leggera, verso un capitalismo pulito, caratterizzato da un bassissimo consumo di risorse materiali e da un ridotto impatto sugli ecosistemi. Questa interpretazione determinista e ingenua vede quindi nel progresso tecnologico la soluzione della questione ecologica: è sufficiente che le economie superino un certo livello di sviluppo e il progresso tecnico si incaricherà di ridurre l’impatto sugli ecosistemi attraverso una maggiore efficienza nell’uso delle risorse.

Questa idea è stata recentemente ripresa – in un modo che non poteva essere più chiaro – dal presidente statunitense Bush, il quale ha dichiarato: «La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: essa è la soluzione, non il problema».[36] Certo non stupisce che questa sia l’opinione del presidente degli Stati Uniti o dei leader occidentali; il fatto è che, pur con diverse sfumature, questa posizione è largamente condivisa persino dagli ambientalisti, passando naturalmente per le principali tecnocrazie internazionali, dalla Banca Mondiale al WTO.

Resta dunque la domanda fondamentale: è vero che il progresso tecnologico comporta una riduzione dell’impatto sugli ecosistemi e in particolare sui consumi di materia ed energia?

È certamente corretto affermare che le tecnologie informatiche e, più in generale, le cosiddette nuove tecnologie sono capaci di produrre reddito con un minore impiego di risorse naturali. Tuttavia, mentre i consumi di numerose risorse per unità di prodotto sono effettivamente diminuiti nei paesi più avanzati, i consumi assoluti di risorse continuano ad aumentare. Alcuni dati basteranno a chiarire questo punto.

Una unità di GNP[37] può essere prodotta oggi con meno energia che all’inizio degli anni Ottanta. L’intensità dell’energia (misurata come energia per unità di GNP) è diminuita addirittura del 32% negli USA dal 1980 al 2000. Ma questa diminuzione dell’intensità di energia non ha portato a una riduzione del consumo totale di energia (Primary Energy Consumption) che è aumentato del 23% negli USA nello stesso periodo. Considerazioni analoghe valgono per i principali paesi europei.[38] Se realizziamo poi un’analisi comparata, il paradosso risulta confermato: le economie più efficienti, come gli Stati Uniti o la Norvegia, hanno consumi energetici pro capite oltre tre volte superiori a quelli di economie nettamente meno efficienti, come il Messico o l’Ungheria.[39]

Come è possibile che a un aumento dell’efficienza corrisponda un aumento – anziché una riduzione – nei consumi totali di energia?

Il punto chiave, che sfugge alle maglie dell’analisi tradizionale, è che progresso tecnico, scelte di consumo e impatto sugli ecosistemi sono tra loro connessi da una complessa relazione sistemica, e non da una semplice relazione di causa-effetto. Tenterò di illustrare questa relazione circolare, attraverso un esempio. Consideriamo il caso della carta. Si dice che l’uso dei computers e della posta elettronica, sostituendo la corrispondenza tradizionale, dovrebbe condurre a una riduzione del consumo di carta. Se andiamo a controllare i dati ci accorgiamo che, al contrario, il consumo di carta è enormemente aumentato. Perché? Ma semplicemente perché noi oggi facciamo, grazie ai computers, una quantità di cose che erano impensabili in precedenza. In altre parole il progresso tecnico stimola continui nuovi bisogni e – nel lungo periodo – trasforma l’immaginario collettivo conducendo a un aumento complessivo dei consumi.

Ecco che gli innumerevoli oggetti da cui siamo circondati divengono, grazie al progresso tecnico, da un lato relativamente meno costosi e quindi alla portata di tutti, dall’altro – sospinti dalle manipolazioni del marketing e della pubblicità – divengono sempre nuovi, qualitativamente differenziati, indispensabili. In altre parole l’effetto congiunto di questi processi, sospinti dal progresso tecnologico, induce una trasformazione profonda nelle abitudini di vita e di consumo, sino ad incidere sulla cultura e sui valori condivisi: in altre parole sull’immaginario collettivo (N).  È questa trasformazione ad alimentare l’aumento dei consumi, il quale più che compensa la riduzione nell’utilizzo di risorse legato alla maggiore efficienza, portando a un aumento nell’uso delle materie prime e a un maggiore impatto sugli ecosistemi.

Ma vi è una seconda ragione. Le organizzazioni complesse richiedono continui apporti di materia/energia (e impiego di  lavoro) per mantenersi “in condizioni di efficienza”, in altre parole per svolgere adeguatamente le proprie funzioni. Queste strutture infatti (imprese multinazionali, centri di ricerca, burocrazie, sistemi di trasporto, ecc.), non diversamente dalla biosfera, sono strutture dissipative. Come mostra la teoria dei sistemi complessi,[40] esse si mantengono lontano dall’equilibrio termodinamico grazie a continui apporti di energia provenienti dall’esterno del sistema. Diveniamo così consapevoli di come tali strutture richiedano enormi flussi di materia/energia (e l’impiego di stocks, es. lavoro), non solo – e non tanto – per generare benessere, quanto per mantenere sé stesse. Alcuni esempi aiuteranno a comprendere questo punto.

Con ogni probabilità un giovane ingegnere occidentale, impiegato in una società di software, utilizza direttamente meno risorse naturali di quanto non ne utilizzi, ad esempio, un operaio indiano impiegato in uno stabilimento per la produzione di coloranti. Tuttavia quante risorse e quanto lavoro richiede la produzione sociale di un ingegnere? E delle tecnologie informatiche in generale? Si può forse programmare computer senza recarsi al lavoro in automobile o senza disporre di una casa arredata con ogni comodità? In conclusione le strutture economiche (imprese multinazionali) e in generale le organizzazioni complesse (sistemi di trasporto, cura, svago, istruzione, ricerca, ecc.) necessarie alle democrazie avanzate per farsi promotrici dell’innovazione tecnologica, richiedono esse stesse, per poter essere mantenute, enormi ammontari di lavoro e di risorse naturali, e questo indipendentemente dalla loro capacità di produrre benessere.

Non solo; i flussi di materia/energia necessari al mantenimento di tali strutture aumentano al crescere della scala e della complessità di questi sistemi. Comprendiamo, quindi, perché maggiore progresso tecnico, implicando generalmente strutture più grandi e più complesse, significhi maggiore consumo di materia/energia e maggiore sfruttamento del lavoro.

Ecco dunque che, nelle giustificazioni razionali che vengono portate a sostegno di ogni nuova soluzione tecnologica ai problemi sociali ed ecologici, vi è un livello, del tutto essenziale, che tende a rimanere inconscio. Di fronte ad ogni nuova tecnologia, la domanda che abitualmente ci poniamo è semplicemente se questa sia più efficiente della precedente; cioè, in termini ecologici, se consumi meno risorse.    Di fronte a una risposta positiva a questa domanda siamo certi di aver compiuto un passo avanti sulla via della sostenibilità. E qui, invece, ci inganniamo.

La riformulazione della teoria della produzione in termini sistemici, che abbiamo qui abbozzato, ci porta a considerare la questione del progresso tecnologico da una prospettiva completamente diversa, ponendoci nuovi interrogativi. Posti di fronte ad ogni innovazione tecnologica, occorrerà innanzitutto domandarsi quali sono le tipologie di stock (sistemi biologi, economici, sociali) implicate nella produzione di quel bene, e quali sono i flussi di materia energia e lavoro che queste presuppongono per auto-mantenersi. È possibile, infatti, che la quantità di risorse assorbita dai sistemi necessari alla produzione della nuova tecnologia sia superiore a quella risparmiata direttamente dalla tecnologia stessa.

Quanto detto ci consente di offrire una diversa e – credo – più profonda interpretazione delle trasformazioni strutturali legate al progresso tecnologico, oltre a offrirci un’interpretazione degli effetti paradossali a cui questo dà origine. Se le ipotesi che abbiamo avanzato sono corrette, è evidente che il progresso tecnologico, affidato al meccanismo impersonale del mercato, non può rappresentare, né oggi né in futuro, la soluzione alla crisi ecologica (e sociale). Al contrario il suo inscindibile associarsi alla crescita dei consumi comporta l’evolversi della struttura produttiva verso scale più ampie e più complesse, con un conseguente aumento del degrado entropico e dello stress a cui sono sottoposti i sistemi biologici e sociali.  Anziché rappresentare la soluzione, esso rischia  dunque di avviare il sistema lungo una spirale auto-accrescitiva.

Più di trent’anni or sono Ivan Illich aveva profeticamente intuito quanto queste mega-macchine (sistemi di produzione, trasporto, cura, ecc.), superata una certa soglia, producano varie forme di disutilità, sino a divenire pericolose per la sopravvivenza dell’intero corpo sociale che le ha generate (e per la biosfera). La rappresentazione del processo economico mediante stocks e flussi, introdotta da GR nell’ambito della teoria della produzione e qui estesa all’intero sistema socio-economico, consente di fornire una spiegazione analitica delle ragioni che stanno alla base di questo fenomeno, offrendoci uno strumento concettuale per tentare di valutare le trasformazioni strutturali che diversi modelli economico-sociali comportano.

In conclusione – se l’analisi che abbiamo offerto è corretta – non saranno sufficienti i blandi riformismi legati alle politiche di sviluppo durevole o sostenibile, ma occorre immaginare una profonda revisione delle condizioni  ecologiche e sociali di produzione/mantenimento della ricchezza: in altre parole occorre osare la decrescita.



[1]           Sulla teoria bioeconomica si veda la raccolta di saggi di N. Georgescu-Roegen, Bioeconomia. Verso un’economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. Per una introduzione critica alla vita all’opera di Georgescu-Roegen mi sia consentito rinviare a  M. Bonaiuti, La teoria bioeconomica. La “nuova economia” di N. Georgescu-Roegen, Carrocci, Roma, 2001.

[2]         Basti ricordare che l’impronta ecologica, ossia l’area degli ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta per produrre le risorse che la popolazione umana consuma e per assimilare i rifiuti degli USA è circa 5 volte superiore alla disponibilità media globale. In altre parole, se si estendesse a livello globale il livello di consumi dell’americano medio, occorrerebbero circa cinque pianeti per sostenerne il livello di vita. I valori per i paesi europei sono circa due – tre volte superiori alla disponibilità media globale. Si consideri che la Cina ha ancora un’impronta ecologica pro-capite oltre sei volte inferiore a quella americana. Cfr. N. Chambers, C. Simmons, M. Wackernagel, Sharing Nature’s Interest. Ecological Footprints as an indicator of Sustainability, Earthscan Pub., 2000; tr. it. Manuale delle impronte ecologiche, Ed. Ambiente, Milano, 2002.

[3]         In conclusione, se vogliamo distillare una filosofia dalla teoria bioeconomica, questa ci insegna che, in definitiva, la produzione di qualsiasi bene o servizio, comporta un’opportunità in meno per gli esseri viventi che verranno dopo di noi. In altre parole il processo economico di produzione comporta inevitabilmente un “costo” (in termini di materia/energia degradata), e che tale costo sarà sempre maggiore di zero.

[4]         Nel mio precedente lavoro concludevo affermando che il ruolo attribuito da Georgescu-Roegen ad un’epistemologia di derivazione autenticamente biologica è tutto sommato limitato: “…come spesso accade nella competizione tra paradigmi, Georgescu-Roegen, reagendo all’epistemologia neoclassica dell’equilibrio, ha probabilmente sovrastimato le potenzialità euristiche ed applicative della Seconda Legge della termodinamica. La sostituzione del vecchio paradigma meccanicistico con un nuovo paradigma fondato, in modo pressoché esclusivo, sulla termodinamica, consentiva di giungere a conclusioni semplici ed univoche circa la non compatibilità del processo economico rispetto alle leggi fondamentali della natura. E’ ragionevole sostenere che in questa operazione di revisione epistemologica siano stati proprio alcuni concetti e strumenti della biologia (e dell’ecologia) ad essere non adeguatamente considerati.” Cfr. La teoria bioeconomica, cit., p. 96

[5]         V. I. Vernadskij, La biosfera e la noosfera, Sellerio, Palermo, 1999; ed or. 1945.

[6]         Come noto l’indice di questa espansione, il Prodotto Interno Lordo (PIL) contabilizza in positivo ogni sorta di attività produttiva, (compresi i costi per la salute e per il ripristino dei danni ecologici). Da un punto di vista biologico esso rappresenta un vero paradosso… non ci si rende conto di come esso rappresenti più un indice  della “temperatura” del sistema economico che non – come si pretende – una misura del benessere degli individui. In altre parole, stimolare continui aumenti del PIL in una società industrializzata è un po’ come pretendere che indefiniti aumenti di temperatura possano portare beneficio ad un soggetto già febbricitante.

[7]         Sul problema della crescita e della scala nel mondo biologico si vedano le interessantissime osservazioni svolte da G. Bateson in Mente e natura.  Adelphi, Milano, 1984, pp. 78-84.

[8]       G. Bateson, op. cit. 1976, p. 154; K. Lorenz, Il declino dell’uomo, Mondadori, Milano 1984).

[9]         Cfr. Georgescu-Roegen, An. Econ. cit. 1966, successivamente ripreso da K. Mayumi, The origins of Ecological Economics, Routledge, London, 2001, pp. 8-20.

[10]        In virtù della natura biologica dell’essere umano è’ difficilmente contestabile, infatti, il fatto che i beni finalizzati al soddisfacimento di alcuni bisogni biologici fondamentali, (acqua, cibo, ecc. ) non possano essere sostituiti da altro genere di beni.

[11]        Georgescu-Roegen ha avanzato l’ipotesi “forte”, sostenuta da alcuni psicologi (Cfr. A.H. Maslow, Motivation and personality, Harper, N.York, 1970), secondo cui sarebbe possibile postulare un ordine gerarchico dei bisogni. (Cfr. Analytical economics, 1966). Questa ipotesi è interessante, sebbene la recente antropologia comparata ci abbia reso consapevoli della estrema mutevolezza di tali gerarchie nelle diverse culture. L’ipotesi “forte” di un ordinamento gerarchico dei bisogni non è comunque necessaria a dimostrare l’incongruenza della teoria neoclassica. Emerge in ogni caso la necessità di riformulare il concetto di benessere nei termini di un equilibrio multidimesionale – per riprendere l’espressione di Ivan Illich – secondo cui, per ciascuna tipologia di bisogni, si richiede la presenza di “quantità minime” atte a soddisfarli.

[12]        Cfr. K. E. Boulding, Evolutionary Economics, Sage Pub., London, 1981.

[13]        F. Hirsch, I limiti sociali dello sviluppo, 1981.

[14]        Cfr. “Alternative economiques, sett. 1993.

[15]        Cfr. N. Klein,  No Logo, pp. 349-367.

[16]        Si noti che il prodotto, se si esclude la differenziazione realizzata attraverso la pubblicità, il marchio ecc. è fortemente omogeneo, (ne è prova il fatto che è realizzato nei medesimi stabilimenti della concorrenza) e pertanto si presta ad innescare dinamiche fortemente competitive.

[17]        Assumendo che la funzione di produzione assuma la tradizionale forma tipo Cobb Douglas utilizzata da  Solow/Stiglitz:

Q =  Ka Rb Lc

Sarà possibile produrre qualsiasi output Q0 aumentando la quantità di capitale e riducendo indefinitamente la quantità di risorse naturali secondo l’espressione: Rb =  Q0/ Ka Lc  

[18]        Cfr. R. M. Solow, Intergenerational equity and exaustible resources, Review of Economic Studies, 1974, p. 11.

[19]     Secondo Georgescu-Roegen i fattori di produzione secondo l’accezione classica: lavoro, capitale e terra ricardiana, (rispettivamente L, K, e T) costituiscono le fondamentali tipologie di fondo. Cfr. Georgescu-Roegen, The Entropy Law, cit., cap. IX e soprattutto il saggio Ricette fattibili contro tecnologie vital. In Bioeconomia, cit..

[20]    Certamente i fondi, essendo concetti quantitavi (aritmomorfici) e dunque misurabili, presentavano il vantaggio di una alta trattabilità matematica. Al contrario gli stocks, in quanto sistemi soggetti a continue trasformazioni qualitative, non presentano lo stesso vantaggio.  Tuttavia la “scoperta” che gli stocks implicati nel processo di produzione sono gli stessi presenti nel processo di creazione del benessere, ci ha spinto ad abbandonare il modello di G:R. in favore di un più compiuto approccio sistemico.

[21]     E’ vero che, come ha osservato K. Boulding, lavoro, capitale e terra ricardiana rappresentano aggregati assai eterogenei. Essi risultano più significativi come fattori di distribuzione che come fattori di produzione. Egli pertanto propone una diversa classificazione che prevede energia, materia e  conoscenze (know-how) come fattori fondamentali di produzione. In effetti lavoro e capitale, nel senso tradizionale, altro non sono che aggregati di materia/energia e conoscenze. Sarebbe possibile, ed anzi auspicabile, l’elaborazione di un modello sistemico che utilizzasse la classificazione proposta da Boulding. Qui si è scelto tuttavia di mantenere le categorie standard (lavoro, capitale) per consentire di cogliere meglio le differenze tra l’approccio sistemico qui proposto e la tradizionale funzione di produzione.

[22]     Si osservi infine che  una parte dei beni prodotti (i così detti beni intermedi) costituiscono un input per altre imprese. Essi realizzano  quel feedback positivo su cui si basa la dinamica degli investimenti e della produttività.

[23]        Assumiamo qui come “soggetto di consumo” una unità sociale che può coincidere ma anche essere più ampia del singolo consumatore (come la famiglia,  il clan, o il gruppo di acquisto locale). Assumiamo inoltre il termine consumo in una accezione assai ampia: essa sarà per noi qualsiasi attività che comporta una variazione nella “felicità”/ benessere del soggetto.  Si accetta dunque l’ipotesi che “il consumatore” sappia (generalmente) esprimere le proprie “preferenze” (teoria delle preferenze rivelate) sebbene, in conformità alle nostre ipotesi, esse non saranno necessariamente ordinabili lungo un medesimo indice unidimensionale (utilità).

[24]        Sarà bene richiamare la differenza fondamentale tra fondi e flussi. Secondo Georgescu-Roegen ciò che caratterizza un fondo è l’ipotesi secondo cui esso sia presente al termine del processo nelle medesime condizioni in cui vi è entrato. Affinché tale ipotesi rappresenti la realtà in modo soddisfacente, il modello prevede specifici flussi  che consentano di mantenere ogni fondo nelle medesime “condizioni di efficienza” in cui si trovavano all’inizio del processo (Georgescu-Roegen, The entropy law and the economic process, Harvard University Press, Cambridge Mass.,1971, p. 230). Rispetto alla funzione di consumo ciò significa, ad esempio, che grazie al flusso di beni quali cibo, acqua, ecc. è assicurato il mantenimento della funzionalità biofisica dei membri della famiglia.

[25]    A differenza della definizione fornita da Georgescu-Roegen , gli stocks possono qui presentare, al termine del processo, modifiche di natura sia quantitativa che qualitativa. Nonostante queste trasformazioni, immaginiamo che essi, in quanto sistemi, siano sempre riconoscibili al termine del processo. (Cfr. Georgescu-Roegen, Ricette fattibili…cit.).

[26]     Si rimanda per questo al numero monografico della rivista «CNS Ecologia Politica», curato da Giovanna Ricoveri, Beni comuni. Fra tradizione e futuro, EMI, Bologna 2005.

[27]     Recentemente alcuni autori neoclassici hanno tentato di recuperare il ruolo della ricchezza inserendola nella funzione di utilità standard. Tale approccio non è tuttavia assolutamente capace di cogliere la distinzione tra stock e flussi e dunque di trattare la dimensione strutturale della richezza, ai suoi diversi livelli, termodinamico, sociale, economico.

[28]     Secondo la teoria neoclassica, infatti, l’utilità dipende  dalla quantità di beni e servizi consumati, e pertanto esclusivamente dal reddito.

[29]             . Cfr.  www.rprogress.org/projects/gpi/

[30]     Cfr. G. Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

[31]     Cfr. S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

[32]    Si veda in particolare il Rapporto sullo sviluppo umano da cui risulta, inoltre, che negli ultimi decenni il divario di reddito tra il quinto più ricco della popolazione del pianeta e il quinto più povero è cresciuto dalla proporzione di 30:1 nel 1960 a 74:1 nel 1997. È stato anche fatto notare che le ricchezze dei tre miliardari primi in classifica sono maggiori della somma del PNL di tutti i paesi meno sviluppati e dei loro 600 milioni di abitanti. Cfr. UNDP, Rapporto 1999 sullo sviluppo umano 10. La globalizzazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, p. 19.

[33]     Cfr. N. Chambers, C. Simmons, M. Wackernagel, Manuale delle impronte ecologiche, Ed. Ambiente, Milano 2002.

[34]     Basti ricordare alcuni classici del pensiero ecologico, dal noto rapporto del MIT sui Limiti dello sviluppo, ai lavori di G. Bateson, E. Schumacher, dello stesso Georgescu-Roegen e di I. Illich. Per tutti questi autori i testi fondamentali vengono pubblicati all’inizio degli anni Settanta.

[35]        Cfr, A.H. Toffler, Creating a new civilization, Turner, Atlanta.

[36]        Cfr. Le Monde, 16 Febbraio, 2002.

[37]        GNP sta per Gross National Product (Prodotto Interno Lordo). Esso corrisponde al valore dei beni e servizi finali prodotti in una data economia in un anno, ndr.

[38]        Negli USA si è passati da un consumo di energia per dollaro di PIL pari a 16.321 nel 1980 (misurato in BTU, unità termiche britanniche, per dollaro di PIL al cambio 1995) a 11.014 nel 2000. Il consumo totale di energia nello stesso periodo è passato 78,47 a 99,32 quadrilioni di BTU. Fonte: Database Energy Information Administration, marzo 2004.

[39]        L’efficienza (misurata qui dall’indice di produttività del lavoro) posta quella USA = 100, risulta 31 per il Messico e 51 per l’Ungheria, 131 per la Norvegia (91 è la media europea). Il consumo pro capite di energia (misurato in milioni di BTU) risulta rispettivamente: 59 per il Messico, 110 Ungheria, 150 media UE, 341 USA, 422 per la Norvegia. Come si può notare, all’aumentare dell’efficienza aumenta anche, con una correlazione molto stretta, il consumo pro capite di energia. Fonti: OCSE, Energy Information Administration, marzo 2004.

[40]        Il riferimento è qui in particolare ai lavori di Ilya Prigogine: cfr. I. Prigogine e I. Stengers, La nouvelle alliance. Métamorphose de la science, Gallimard, Paris 1979 (trad. it. La nuova alleanza, Longanesi, Milano 1981); I. Prigogine, La fin des certitudes, Jacob, Paris 1996 (trad. it. La fine delle certezze, Bollati Boringheri, Torino 1997); fondamentale anche H. Maturana e F. Varela, The Tree of Knowledge, Shambhala, Boston 1987-1998 (trad. it. L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano), oltre che, in particolare per quanto riguarda le sue applicazioni ai sistemi antropo-sociali, i lavori di E. Morin, in particolare Il metodo. Ordine disordine organizzazione, Feltrinelli, Milano, 1977 e i successivi volumi.