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Decrescita e sviluppo

Siamo costretti a prendere congedo dall’idea di sviluppo, almeno come l’abbiamo inteso fino ad oggi

«Siamo costretti a prendere congedo dall’idea di sviluppo, almeno come l’abbiamo inteso fino ad oggi». Non ha esitazioni Mario Agostinelli, consigliere regionale della Lombardia, a lasciarsi alle spalle tutto l’immaginario dello sviluppo, che si è formato in Occidente in seguito alla rivoluzione scientifica del Seicento. «È un concetto legato al grande successo del modello newtoniano nell’interpretazione della natura e del mondo. Un modello che stabiliva principi generali di conservazione di alcune entità (energia, quantità di moto etc.) e che fissava attraverso equazioni matematiche rigorose le relazioni tra quantità (massa, forza, accelerazione, potenza, velocità, impulso), non chiedendosi più quale fosse l’essenza ultima alla base dei processi naturali. La rivoluzione scientifica, ha spostato l’attenzione sulla relazione tra grandezze osservate col metodo sperimentale e ha veicolato l’idea che la natura fornisse in maniera indefettibile energia, materiali, masse, metalli. E tutto senza scostarsi dalle regole matematiche».

Prende corpo dal XVII a tutto il XIX secolo, secondo Agostinelli, l’idea che il mondo sia una enorme macchina, una specie di grande orologio, che la scienza ha il compito di identificare e precisare in tutti i suoi meccanismi di funzionamento e quindi di controllare e prevedere. «L’uomo, in certo senso, esce dalla natura, se ne separa, la osserva, comincia a utilizzarne le risorse per costruirsi delle protesi per andare più veloce, aumentare la sua potenza muscolare, vedere più lontano, estendere indefinitamente i propri sensi. Questa prospettiva della fisica classica, che ha avuto un successo enorme per lo sviluppo della tecnologia, non tiene conto del trascorrere irreversibile del tempo e immagina che la natura non lasci scorie quando viene consumata. Come se si potesse riprendere il fumo che esce dal tubo di scarico di un motorino e rimetterlo nel serbatoio per riciclarlo di nuovo. La grande novità arriva alla fine dell’Ottocento: ci si rende conto che quando la natura viene utilizzata in maniera difforme, per tempi e quantità, da quanto è compatibile con il ciclo dell’energia solare, non porta più vita, ma degrado, morte, distruzione. Se l’uomo immagina di poter saccheggiare la natura perché ne è il padrone, lui che è arrivato l’ultimo giorno di una storia di miliardi di anni, altera un equilibrio, forza interrelazioni complesse che si autoregolano, rompe l’ordine naturale».

Per Agostinelli la constatazione che si diffonde nel nostro tempo è inquietante: «Questo tipo di sviluppo, legato all’applicazione dell’immagine del mondo della meccanica razionale e che pure ci ha fatto raggiungere risultati straordinari, oggi s’interrompe. Infatti, quando i suoi modelli e i suoi risultati con le previsioni conseguenti vengono applicati acriticamente al mondo animato non funzionano più. L’accelerazione infinita dei consumi, ad esempio, è impossibile fuori da un mondo artificiale o virtuale come è quello costruito dalla pubblicità, perché la biosfera ha un tempo e una capacità di rigenerazione finiti, che seguono ritmi e cicli diversi da quelli che oggi l’uomo le impone. Quel tipo di sviluppo che è stato identificato con la crescita del PIL e che si è affermato come sistema capitalistico di mercato, entra in conflitto con le leggi della vita. Tutto quello che è vitale può morire ed essere “ucciso” proprio da una insana idea di crescita identificata col progresso.  Non c’è quindi lo spazio né il tempo per una crescita infinita».

Si fa luce quindi una percezione che dagli anni Ottanta con la cultura ecologica sta diventando senso comune: «La quantità di persone che vogliono accedere a un siffatto sistema di consumo è talmente grande che il mondo non può resistere, muore. E morirebbe, ai ritmi attuali, nell’arco di due, tre o cinque generazioni. Si apre così un problema di tipo politico: poiché il mondo vivente e la nostra civiltà – si badi bene, non il pianeta in sè -possono collassare, bisogna spostare l’attenzione sull’allungare al massimo la permanenza dell’uomo sulla terra, intriducendo per la prima volta il concetto di diritti della specie umana, non solo dei singoli individui o dei popoli. E anche i beni che sembravano a disposizione del mercato e di propietà del capitale, come l’acqua e il petrolio, o più in generale l’energia, diventano beni comuni, che non si possono consumare senza una giustificazione anche politica ed una riflessione collettiva sulla loro disponibilità universale e per le generazioni future».

Nel frattempo  ci si trova a misurare con un altro evento di carattere epocale, imprevisto ma non imprevedibile: «L’ambiente, sempre più deteriorato e inquinato, reagisce all’opera dell’uomo e lo fa in maniera terrificante. Con i tornado, con l’aumento della temperatura, con l’aumento di energia nell’atmosfera, che per la vita sulla terra significano un disastro di proporzioni inaudite. Si altera infatti un equilibrio che si è costituito in milioni di anni, prima che arrivasse l’uomo con tutte le sue protesi artificiali (transistors, telefonini, macchine industriali, frigoriferi, automobili) e saccheggiasse i serbatoi naturali di combustibile approntati in milioni di anni con il lavoro fatto dal sole sui microorganismi sepolti nelle viscere della terra. Un disastro che oggi stanno constatando tutti, meno i politici, per i quali il problema sembra non esistere. A livello globale si è formata un’opinione pubblica nel mondo la quale pensa che la natura vada protetta, lo sviluppo riequilibrato e che per raggiungere la giustizia sociale si debbano distribuire le risorse finite a tutti. A meno che non si voglia fare la guerra per non mettere in discussione il livello di vita di pochi privilegiati armati fino ai denti e far morire di fame gli altri, proprio nell’epoca storica in cui per la prima volta l’umanità ha a disposizione risorse finanziarie e alimentari, scienza e tecnologia per realizzare una giustizia sociale planetaria». Il processo di sganciamento dall’ideologia dello sviluppo non avverrà in maniera indolore. Quali ripercussioni sono prevedibili a livello sociale e politico? «Il primo grande problema è che i popoli che si affacciano adesso allo sviluppo, come Cina, India, Brasile, devono essere capaci di scegliere di non accelerare i tempi con cui raggiungono la società consumistica e di non identificarsi in quel modello di produzione e di consumo. Questo creerà tensioni fortissime sia all’interno di tali paesi, che puntano giustamente a maggiore benessere, sia tra nazioni del nord e del sud del mondo. Il capitalismo del Nord produce infatti nei paesi del Sud, crea mercati, sfrutta risorse naturali e manodopera, distruggendo territori e complessità culturali e imponendo i propri criteri e i propri orientamenti secondo il dominio del pensiero unico . Sta montando però una reazione, come dimostra la ribellione e il protagonismo dei popoli indigeni, che resistono ai tentativi delle multinazionali di brevettare le loro piante medicinali o di accaparrarsi l’acqua dei loro territori e hanno aperto un grande conflitto sulla vita e sui beni comuni».

Ma c’è un altro fronte, quello del lavoro, al quale Mario Agostinelli, ex dirigente sindacale, è molto sensibile: «La riduzione necessaria delle merci e della quantità materiale dei prodotti, comporta anche il rallentamento della civiltà manifatturiera industriale e pone grandi problemi sul piano dell’occupazione e richiede un approccio diverso da quello tradizionale da parte del movimento operaio. Bisogna partire dal presupposto che le merci da produrre d’ora in avanti devono sottostare a criteri di  utilità e desiderabilità sociale. Perciò i lavoratori devono partecipare direttamente e con le loro rappresentanze al progetto di società futura e familiarizzarsi con l’idea di uno sviluppo sobrio, accettare una discussione preventiva su quale debba essere il modo di vivere e rompere così la divisione tra produttori e consumatori».

E qui Agostinelli auspica la contaminazione fra due culture, quella marxista, che ha sempre difeso i diritti del lavoro, e quella cristiana, sensibile ai poveri e a una giustizia sociale realizzata con una vita sobria. «C’è una reazione durissima del mondo dei potenti per impedire che ci sia un avvicinamento tra l’ispirazione evangelica di fondo e l’ispirazione socialista: l’attenzione agli ultimi e la giustizia sociale coniugata attraverso il diritto al lavoro».

Agostinelli è convinto che il movimento operaio abbia un obiettivo immediato per rendere praticabile la sfida di un modo di produrre non più distruttivo: la diminuzione dell’orario di lavoro. «È incredibile che in questi anni in cui viene “ucciso il  mondo” con uno spreco di natura e una distruzione della qualità dell’occupazione  sia aumentato l’orario di lavoro. La gente, dato che è costretta a  comprare moltissimo e non dispone più di beni collettivi a fronte della privatizzazione più selvaggia e della retrocessione dei diritti conquistati, monetizza le sue aspirazioni, fa gli straordinari oltre ogni misura, lavora di sabato e di domenica, è “a disposizione” incessantemente. Il lavoro invece va ripartito e c’è bisogno di molto tempo libero per consumare relazioni che non costano niente e rendono la vita più felice. Purtroppo dall’alto non ci vengono buoni esempi: il capo del governo di un luogo straordinario come l’Italia, che ha la più alta concentrazione di opere d’arte, di culture territoriali, di storia locale, è un mercante che pensa che il consumo debba crescere a dismisura e che la ripresa dell’economia avvenga se tutti vanno ai supermercati. Il presidente della Lombardia Formigoni ha affittato per cinque giorni e cinque notti il palazzo della regione alla Motorola, che vi ha proiettato l’immagine del suo ultimo modello di telefonino. Incredibile! Come se sulla facciata della chiesa del suo quartiere venisse proiettata la reclame delle saponette».

Se si adottasse  un processo di decrescita, come ce la caveremmo con la disoccupazione e la riconversione dei processi produttivi? «Decrescita significa produrre meno merci con minor spreco di energia, ma non vuol dire meno lavoro, meno relazioni, meno cooperazione. Non c’è incompatibilità fra decrescita e diritto al lavoro, naturalmente in un sistema completamente diverso in cui l’occupazione si sposti dai settori tradizionali ad altri settori. La quantità di lavoro richiesta, ad esempio, dai sistemi alimentati con energie rinnovabili è del 27% in più rispetto al ciclo energetico tradizionale. Se si cambiasse il modello di mobilità all’interno delle città, sarebbero necessarie reti organizzative che richiedono tantissimo lavoro. All’Alfa Romeo abbiamo sperimentato che si potevano impegnare i lavoratori rimasti dopo il saccheggio della Fiat a produrre un’auto con minor impatto ambientale e sistemi informatici destinati a ridurre il traffico».

Come reagiscono i lavoratori quando si prospetta un programma di decrescita? «Straordinariamente bene. Il Italia ci sono otto Camere del Lavoro che stanno riflettendo e impostando un programma di decrescita. La polemica fra industrialisti e ambientalisti degli anni Novanta è ormai alle spalle; i lavoratori di oggi, che si sono molto impoveriti e cominciano a rendersi conto che i loro figli non avranno nemmeno la pensione, non sono interessati a uno sviluppo di lavoro precario che arricchisce solo gli imprenditori, ma a un mondo diverso. Che i metalmeccanici facciano sciopero contro la TAV in Valsusa è un fatto epocale».

Come la pensano i politici in fatto di decrescita? «La politica, che si muove sui tempi brevi, quelli elettorali a 5 anni al massimo di scadenza, continua a pensare che la crescita sia la base della ridistribuzione. Su questo assioma non c’è sostanzialmente differenza tra destra e sinistra; solo che la crescita della destra è più distruttiva, mentre la sinistra si preoccupa di attutirne il più possibile gli effetti, ma senza mai metterne in discussione il modello. Abbiamo bisogno non di crescita ma di un nuovo criterio, diversificato per le varie parti del mondo, che sia complessivamente più responsabile. Il guaio è che la generazione attualmente al potere si è dimostrata di una incoscienza spaventosa  perché, invece di cambiare modello, ha accelerato al massimo quello attuale sulla spinta di Reagan, Thatcher e Bush e ci ha fatto perdere 30 anni di tempo. I vari Schroeder, Fisher, Blair, D’Alema, quando hanno governato in Europa, non hanno imparato niente dalla lezione del Sessantotto e dalla straordinaria novià del movimento di Porto Alegre e si sono adattati al sistema».