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Decrescita e sviluppo

ENERGIA RINNOVABILE E DECRESCITA: UN NUOVO PARADIGMA

ENERGIA RINNOVABILE E DECRESCITA: UN NUOVO PARADIGMA

Mario Agostinelli

Forse le difficoltà ed i fallimenti del dopo Kyoto sono più facili da interpretare alla luce delle contraddizioni con cui la politica si deve misurare affinchè diritti, democrazia e “progresso” non entrino in rotta di collisione con i presupposti materiali e tecnico-scientifici e con la cultura di modernizzazione acritica che hanno orientato lo sviluppo intenso e divoratore del “secolo breve”. La lente attraverso la quale propongo di considerare il necessario mutamento che deve investire una politica nuova è quella emblematica dell’energia.   Pochi aspetti, come quello del governo delle politiche energetiche e del cambio di paradigma dovuto alla crisi delle fonti fossili, risentono del cambiamento epocale che il movimento di Porto Alegre ha colto appieno, coniugandolo con la crisi del lavoro e della democrazia, ma che rimane ancora sotto traccia nelle analisi e nei conflitti politici più tradizionali.

Così capita di dover registrare l’intransigenza USA e l’insensibilità cinese alla conferenza di Montreal, come se si trattasse solo di fatti di pura arroganza politica e non, invece, di  scelte meditate di grandi potenze per procrastinare anche con la forza un sistema ed un assetto economico appannaggio di pochi. O accade di  apprezzare la posizione antinucleare di Prodi come un ragionevole freno all’apertura incondizionata all’uranio ed al carbone dei “realisti – industrialisti” dell’Unione, senza chiedersi tuttavia dove si collochino i veri nodi politici mascherati dietro differenti soluzioni tecnologiche. O nemmeno si prova a verificare se l’entusiasmo nelle fonti rinnovabili della parte più lungimirante del mondo scientifico europeo abbia una qualche chance senza che chi ci governa abbia valutato fino in fondo la profondità del cambiamento che si imporrebbe nelle politiche industriali, negli assetti produttivi, nel modello di consumo e nelle conseguenti decisioni di decrescita, che richiederebbero sviluppi democratici impensabili. Assetti e decisioni che fin qui solo rare e isolate personalità dei governi dell’Europa e dell’America Latina cominciano a prendere timidamente in considerazione, mentre sono totalmente estranei agli attuali decisori a livello mondiale.

Allora, vale la pena di far coagulare attorno alla questione energia quel dibattito intenso che ha caratterizzato il confronto sulle pagine di Liberazione tra sviluppisti e ecologisti e che ha trovato spunti interessanti nel Convegno di Ottobre a Roma  introdotto da Paolo Cacciari e concluso da Patrizia Sentinelli.

Per storia  culturale  e – perché no – politica, siamo impregnati di un approccio all’energia legato a concetti muscolari di moltiplicazione delle forze, di potenze crescenti, di inarrestabile accelerazione dei processi produttivi, di accorciamento dei tempi di spostamento: concetti in genere applicati alle macchine e alla trasformazione di quantità esponenziali di  materia inerte, ma vissuti nell’esperienza di donne e uomini come estranei o sovrapposti ai propri ritmi e tempi biologici, del tutto indipendenti ed incomprimibili per vie artificiali.

E’ la rivoluzione industriale, con il suo sedimento tecnologico e scientifico, con la succesiva globalizzazione dei sistemi manifatturieri, l’interconnessione delle reti dei trasporti e delle rotte commerciali, la presunta illimitatezza delle materie prime e la disponibilità dei fossili – enormi lasciti materiali di processi vitali accumulatisi per migliaia di secoli nelle viscere della terra ad opera del sole – che ci ha indissolubilmente legati al bisogno abnorme di energia ed al consumo accelerato della sua quota non rinnovabile.

Ed è l’interpretazione scientifica newtoniana del mondo da imbrigliare nelle sue dimensioni quantitative e l’immagine di una natura non degradabile e insensibile allo scorrere del tempo, che hanno scandito nelle nostre teste e nelle decisioni politiche un progredire del pianeta e della società come un orologio in inarrestabile cammino unidirezionale, senza intoppi, senza scarti, capace solo di ricadute sociali progressive e di redistribuzioni crescenti dei beni prodotti e, in fondo, fonte di un unico conflitto: quello sulla ripartizione delle ricchezze e del potere tra capitale e lavoro.

Oggi però occorre tenere conto di uno straordinario mutamento percettivo che riguarda l’individuo come parte della specie, ma che la politica non porta ancora interamente alla luce: l’energia è, anche e soprattutto, possibilità di vita ed i suoi consumi nella biosfera non sono compatibili con quelli spropositati che il dominio dell’occidente liberista ha fin qui richiesto e la geopolitica del petrolio e del carbone consentito.

Questa percezione, ormai patrimonio delle nuove generazioni, ancorchè negata e scoraggiata dal pensiero unico, rileva che non c’è più un tempo indefinito di crescita davanti a noi, ma che occorre elaborare collettivamente e in solidarietà con le future generazioni la meta di un prolungamento della capacità di sopravvivenza dell’intera umanità. Di una specie, cioè, che dipende interamente dal consumo di energia e, quindi, dagli assetti sociali e dalle decisioni democratiche di produzione, consumo e convivenza nelle comunità, nel territorio e nell’ambiente naturale coesistente.

Questa idea completamente nuova di una disponibilità finita di energia come possibilità non gratuita di ordinare coscientemente e in maniera condivisa le relazioni sociali, il sistema tecnologico caratteristico di una civiltà, le possibilità di benessere universale, gli equilibri vitali dei sistemi ecologici, rappresenta un salto nella cultura e nella pratica politica a cui nessun sistema, neanche quelli di ispirazione socialista e marxista, era ed è preparato.

Si tratta di una innovazione radicale, che ha molto a che fare con gli sviluppi più critici della termodinamica, con l’interpretazione probabilistica e antideterminista della fisica quantistica, con la problematica dell’evoluzionismo o con la complessità delle interazioni  dell’organismo vivente considerate dalla biologia, ancora totalmente estranei alla cultura degli economisti, che fanno da principali suggeritori dei programmi politici oggi adottati.

È giunto il momento di riconoscere che dietro al percorso a senso unico della crescita c’era e c’è una interpretazione del mondo ferma ai successi della meccanica razionale, insensibile alla fragilità ed al consumo della natura e orientata ad escludere dalla sua analisi la complessità della vita.

Ma proprio dallo scontro che si sta aprendo sulle risorse energetiche si potrebbe  visualizzare  un confronto produttivo tra culture altrimenti incomunicabili e rilanciare una riflessione serrata sulle implicazioni da consegnare alle future generazioni di un progetto di risparmio, conservazione, riuso, rinnovamento e ripristino dei cicli naturali.

In questo caso il punto di partenza non è più l’imperativo della crescita né la produzione inarrestabile di merci energivore, ma la constatazione che i processi vitali  dipendono ineludibilmente dall’energia. L’accesso ad essa diventa  quindi un diritto, dato che senza di essa ogni essere vivente cesserebbe di crescere in modo ordinato, evolversi, muoversi, produrre, consumare, pensare, comunicare.

Il nostro pianeta dispone di atmosfera, di oceani e di biosfera e degrada l’unica fonte esterna disponibile – l’energia solare – attraverso una moltitudine di processi diversi che consentono la sopravvivenza di tutte le speci vegetali ed animali, mentre l’uomo aggiunge il prelievo di energia necessario a produrre tutti gli strumenti di cui si circonda e che costituiscono la protesi in evoluzione del proprio corpo e l’ossatura della società dei consumi. Perciò la questione dell’energia, al pari di quella dell’acqua, assume un aspetto centrale anche nello sviluppo della civiltà, nella salvaguardia della natura, nel prevenire i cambiamenti climatici, nel garantire la pace. Ma acqua ed energia sono risorse finite, degradabili, in via di privatizzazione e di espropriazione: entrambe rischiano di divenire, da beni comuni indispensabili alla vita, prodotti di mercato rubati alla collettività.

Così, il cuore del problema che stiamo esaminando non può essere trasferito ed affidato al mercato, come sembrano convenire l’Unione Europea ed il WTO. Una riduzione drastica dei consumi, unita alla possibilità di riassorbimento almeno parziale delle scorie energetiche nei cicli naturali, impone scelte politiche partecipate per abbandonare le fonti fossili e il nucleare e, soprattutto, per invertire la crescita, dato che nemmeno tutte le risorse rinnovabili a disposizione della Terra, con l’esplosione demografica prevista, potrebbero bastare a sostenere oltre la fine del secolo il trend dei consumi attuali.

E’ tempo di prendere decisioni nette.  La generazione oggi al potere, pur avendo vissuto e attraversato le straordinarie esperienze del ’68, ha sprecato almeno 30 anni preziosissimi, eludendo la sfida di un diverso paradigma energetico, che avrebbe richiesto, oltre che discontinuità, tenace informazione, sforzo di ascolto e di educazione ed un coraggio politico in grado di stimolare ricerca avanzata, risorse finanziarie adeguate, tecnologia appropriata, politiche industriali innovative, democrazia partecipata.

Attardarsi su nucleare e carbone è improponibile: il confinamento di scorie impossibili da smaltire nelle condizioni attuali, richiederebbe la istituzionalizzazione di una “casta di sacerdoti militarizzati” – come li chiama Giorgio Nebbia – che dovrebbe  tenere separati dall’attività umana per milioni di anni i residui nucleari accumulati o le enormi quantità di anidride carbonica iniettata e sequestrata nelle rocce.

Cambiare si può ed è, oltre che auspicabile, possibile, come appare da molti segnali inequivocabili. La produzione centralizzata di energia, caratterizzata dal carico insostenibile di impianti e combustibili, ha fino ad oggi fatto da motore e da copertura della distruzione di territori e di comunità, inibendo la loro memoria dell’ambiente e la loro capacità di tramandare e trasferire  culture efficaci per individuare soluzioni di progresso in armonia con la natura.

In fondo, tra la battaglia anti TAV della Val di Susa, il rifiuto delle scorie  nucleari di Scanzano e l’avvio di un grande ripensamento sul passaggio dai fossili all’era solare c’è un profondo nesso di continuità.

A Gennaio a Bamako, nel Mali e a Caracas nel Venezuela, due delle sedi continentali del Forum Sociale Mondiale, il movimento e il popolo di Porto Alegre lanceranno  il “Contratto mondiale per l’Energia e il Clima”, in analogia con il Contratto Mondiale per l’Acqua.

Varrebbe la pena che, a partire da Rifondazione Comunista e da una sinistra in via di rinnovamento, tutti sappiano cogliere, con entusiasmo e determinazione, un’occasione preziosa e un’opportunità irrinunciabile.