REPOSITORY

Generale

BENI COMUNI: UN CATALIZZATORE PER I MOVIMENTI?

Mario Agostinelli, Alternative per il socialismo, Novembre 2011

PREMESSA

In un articolo di Martedì 1 Novembre su Repubblica – sotto l’occhiello impegnativo di “Mercati & democrazia”- Ulrich Beck avanza una tesi scioccante, fin qui esorcizzata dagli estensori delle “istruzioni tecniche” che dovrebbero costringere il renitente 99% a condividere le medicine amare dell’1% che beneficia del trionfo del pensiero unico. Eppure, per certi versi, le previsioni del sociologo tedesco avrebbero dovuto sollevare, se non il panico dell’annuncio del referendum greco, almeno l’apprensione dei devoti della BCE. Beck sostiene che un caldo autunno del Nord del mondo – dall’America, all’Inghilterra, al Canada, all’Italia, alla Germania e al Giappone – sul modello della primavera araba potrebbe distruggere addirittura il credo di un sistema, quello che fino a non molto tempo fa veniva chiamato “libera economia di mercato” e che ora comincia a venir sottoposto a critica radicale come “capitalismo”.

Sta forse esagerando o, comunque, scambiando troppo ottimisticamente l’uragano della crisi finanziaria per un’occasione che spinge alla discontinuità con il sostegno di moti democratici fino ad ieri impensabili? Non credo: anzi, gli eventi di questo 2011, compreso a livello nazionale lo spegnersi del sogno berlusconiano e il consolidarsi del concetto unificante di bene comune, stanno a dimostrare la giustezza dell’intuizione che attraversa l’intero editoriale  del quotidiano: un allarme insistito per la divaricazione drammatica tra immobilismo della politica e attese della società.

E’ il centro della società, che si ritrova esclusa per il 99%, che protesta nelle piazze o, perlomeno, empatizza in una sorta di comunità di destino, che si fa esperienza condivisa con il precipitare della crisi. Questa forma di mobilitazione incessante ha assunto tratti rilevanti e permanenti già da tempo in molti Paesi e nel nostro è stata sostenuta da una torsione, direi, più matura e da un tratto più avanzato, consistente nell’individuare nei beni comuni un cuneo di proposta attraverso cui organizzare diversi piani di azione e chiamare a raccolta una pluralità di soggetti per l’alternativa. Purtroppo la cornice concettuale e istituzionale in cui si muove la politica italiana non entra in sintonia con questo movimento della società, come stanno a dimostrare sia l’estraneità dei partiti dalla vicenda referendaria di Giugno sia la loro resistenza ad ottemperare anche sul piano amministrativo alla vittoria dei sì. O come sta a testimoniare il protagonismo assegnato dai media nella più grande manifestazione mondiale del15 Ottobre – tenuta non a caso a Roma – all’azione dei violenti, essi sì raccontati con dettaglio e “compresi” in uno schema che riduce il conflitto ad una questione tra legalità e illegalità, pur di esorcizzare lo scontro tra potere e legittimità delle proteste di un immenso corteo democratico.

La quasi totalità della politica è sorda al fatto che le contraddizioni del capitalismo finanziario si riversano a tal punto sull’esperienza quotidiana e locale da allontanare sempre di più quelli che provocano rischi e ne traggono profitto da quelli che ne subiscono solo le conseguenze. Sono ormai in gioco direttamente la vita, la dignità, la ricchezza che proviene dal lavoro e  dalla natura – e qui sta il collegamento tra beni comuni e soluzioni della crisi finanziaria – che questo sistema mette a repentaglio in forme così estese da colpire capillarmente gli esclusi, ma non più solo loro: il rischio è potenzialmente per tutti, oltre le stesse appartenenze politiche tradizionali. Non si spiegherebbero altrimenti 27 milioni di votanti ai referendum in tempo di vacanze, né il calendario impressionante di manifestazioni composte e riuscitissime nell’arco di due sole settimane, nonostante i tentativi di scoraggiare le piazze dopo gli scontri di metà Ottobre a San Giovanni: La Fiom in piazza del Popolo (il lavoro), i NO TAV in Val Susa (l’autogoverno del territorio), gli artisti al Teatro Valle a Roma (la cultura e la conoscenza), i movimenti contro il carbone sul delta del Po (il risparmio e le energie rinnovabili), le associazioni contro il consumo di suolo a Cassinetta di Lugagnano (la terra e l’agricoltura), gli studenti (l’istruzione) che resistono alle provocazioni della polizia alla Tiburtina, in attesa del corteo nazionale per l’acqua pubblica del 26 Novembre. E mentre nel mondo una ascoltatissima cassa di risonanza si posiziona ora a Nizza (1e 3 Novembre), ora a Oakland (2 Novembre), ora a Santiago, ad Atlanta, a Tel Aviv (5 Novembre) e dalle tende delle piazze cosmopolite più illustri  e note partono cortei e si organizzano in continuazione sit-in che i siti web fondono in un unico linguaggio.

INTRECCIARE LE PAROLE D’ORDINE DEI MOVIMENTI

La forza di alcuni messaggi che oggi rimbalzano in più parti del mondo e in controtendenza rispetto all’immaginario collettivo sedimentato, fornisce la prova di una comune contestazione dell’egemonia liberista. Una confutazione estesa e in ripresa, in atto non più solo o principalmente in America Latina, come eredità metabolizzata di 10 anni del Forum Sociale Mondiale, ma, finalmente, anche, in forme inedite lungo le sponde sud del Mediterraneo, e in riscoperta nell’America del Nord ed in Europa. E’ la stessa Naomi Klein che parlando a Zuccotti Park ricorda come “il debito noi non lo paghiamo” nasca in Italia e conquisti immediatamente gli occupanti di Wall Street e gli accampati di Washington e di Los Angeles. Così come va rimarcato che lo slogan  formidabile “noi il 99%, voi solo l’1%” attraversa di slancio l’Oceano nella direzione opposta, mentre il sentimento di “indignazione” coinvolge una intera generazione che si riconosce accomunata e abbandonata al di sopra dei confini di un singolo Paese. Si tratta di sintesi unificanti di rara efficacia, che denotano una identità in formazione, la quale, a sua volta, sta ponendo le basi per una opposizione di massa intransigente. Non ancora frutto tuttavia di una analisi esauriente nè indicazione coerente di una via di uscita, visto che, dall’interno di questi slogan,  le responsabilità della crisi emergono ancora con una sommaria dose di componenti morali ed emotive. Al contrario, il concetto di “bene comune” e le forme di una sua riappropriazione sociale, intrecciati alla percezione e alla risposta realistica alla crisi, rappresentano oggi – a mio parere – il contributo più avanzato per ricostruire il blocco sociale che, in indispensabile alleanza con il lavoro, possa definire le forme di una democrazia che governi l’economia su scala immediatamente locale, ma in definitiva globale.

Provo a sostenere queste affermazioni in un ragionamento più esteso.

Innanzitutto, sarebbe utile non ridurre le responsabilità della crisi alla malvagità delle banche. Lo sviluppo ineguale e la crescita distorta non possono non chiamare in causa soprattutto le imprese e il capitale industriale privato che, specie dagli anni 90, si sono appropriati dell’esclusiva della politica economica e della gestione della ricchezza estratta dall’ambiente naturale e prodotta dal lavoro che mantiene l’intera società: compresi i servizi industriali, del mercato del lavoro e della intermediazione capitalistica bancaria. Il governo del capitale finanziario, in buona sostanza, è frutto di osmosi tra capitale industriale e banche tra loro inscindibili.

Questo aspetto è in parte offuscato e, mentre le proiezioni mediatiche scandiscono un rapporto esclusivo tra stati e sistema bancario – La Merkel e Sarkozy compaiono in ogni telegiornale aggrappati prima a Trichet e ora a Draghi –  manager, capitani di industria e lobbisti e commissari che agiscono in sedi internazionale per il sistema delle imprese rimangono defilati, per ricomparire invece da protagonisti nelle soluzioni politiche che si affacciano per rimediare quello che loro definiscono “il disastro provocato dalla spesa pubblica”.

Che blocco sociale nascerebbe qui da noi, da un’alleanza con Confindustria e le società anonime per azioni (fino alle municipalizzate dell’energia e dell’acqua quotate in borsa!) in funzione anti Berlusconi, lasciando spazio alla mistificazione che non sia stata proprio soprattutto l’industria manifatturiera a trasferire dal processo produttivo alla speculazione, tramite il sistema dell’intermediazione privata capitalistica, bancaria, finanziaria, borsistica, il profitto estorto anche con i bassi salari e il rifiuto della contrattazione che ha caratterizzato gli ultimi decenni?  E perché mai una simile “tolda di comando” non dovrebbe continuare a penalizzare le pensioni e a bastonare il sindacato? Dovremmo, cioè, stare con Marchionne, come dice Renzi, epperò  contro le banche rapaci? Chi, cominciando dalle multinazionali, dalla Suez alla Fiat, dalla Danone alla Nestlé, dalla Basf alla Eni, dalla British Telecom a EDF-Edison-A2A, si è appropriato in anni di globalizzazione e di delocalizzazioni senza regole di un enorme plusvalore che, oltre a non restare nel processo produttivo e a non venire investito nell’economia reale, viene “bruciato” in grandi quantità quotidiane sulle piazze internazionali e ripagato agli avventurieri con la riduzione della spesa sociale e le privatizzazioni? Risalire la catena delle responsabilità permette di scoprire anche il nocciolo del lavoro e delle politiche industriali e collegarsi al tema della riconversione ecologica dell’economia,  che Guido Viale con un’analisi articolata da tempo ci propone sotto la lente dei beni comuni, inserendo così gli slogan “combattiamo il governo delle Banche” e “io il debito non lo pago” in una strategia d’attacco più efficace. C’è poi, oltre al debito contabilizzato nei bilanci, quello contratto nei confronti della natura, che non può essere saldato con artifici contabili, ma con un radicale cambiamento dei comportamenti individuali e sociali, con una svolta nelle politiche energetiche e una politica del suolo, dell’acqua, dell’alimentazione che proprio i referendum di Giugno hanno provato a riportare con successo all’ordine del giorno e che le devastazioni liguri dell’inizio Novembre hanno messo tragicamente alla ribalta. C’è un contrasto tra le leggi dell’economia capitalista – fondate sulla crescita – e quelle della fisica e della biologia  – che non possono prescindere dall’entropia e dalla creazione di ordine locale con consumo irreversibile dell’ambiente – che richiede che le intelligenze delle nuove generazioni e le conoscenze accumulate come bene condiviso e non proprietario vengano utilizzate contro le forze di mercato che ci hanno portato al duplice crollo economico ed ecologico.

La tesi qui sostenuta è che un contributo importante, anche se non esclusivo, all’uscita dalla crisi possa venire dallo sviluppo di un’economia policentrica fondata principalmente sull’autogestione dei beni comuni. Un contributo non irrilevante, dato che riguarda un approccio in estensione. Un approccio che prevede inizialmente forme di gestione democratica dei beni già condivisi da parte delle comunità locali interessate, ma che da subito  si pone già in una dimensione globale, in quanto beni comuni come l’acqua, le energie naturali, le conoscenze e le risorse ambientali hanno assunto un’importanza vitale per l’economia e la società globalizzata.

BENI COMUNI, CRISI, MERCATO E DEMOCRAZIA

Il rischio che una nuova fase di privatizzazioni sia imposta all’Europa- e all’Italia in particolare – ci porta a riflettere sul fatto che i beni comuni, che fino a poco tempo fa consideravamo “naturalmente disponibili”, sono messi ulteriormente in discussione dalle ricette liberiste adottate per tamponare la crisi finanziaria, subendo così un degrado accelerato col venire progressivamente assorbiti nel ciclo economico. Vanno perciò ricostruiti coscientemente nella cornice di un movimento di massa – a partire dagli “indignados” – che intanto prende coscienza dell’ingiustizia sociale che le forze di mercato e il deficit di democrazia hanno provocato e acuito. L`alternativa a questa “ricostruzione” (dal basso), è la privatizzazione coatta, cioè la delega a qualcuno che organizza l`estrazione e la fruizione di “beni” trasformandoli in merce.

Quali sono le ragioni per cui una paventata privatizzazione, nonostante i referendum, è ancora un rischio e può ricevere consenso? E perché una politica prona al mercato e diffidente della partecipazione non se ne fa carico quanto i movimenti? C’è invero un conflitto piuttosto profondo e complesso, che spesso sottovalutiamo, tra l’individuo inteso come singolo proprietario e l’individuo come membro della comunità. Nella modernità, se si esclude Marx e la sua rivoluzione culturale, i rapporti tra gli individui vengono rappresentati come rapporti tra proprietari e la proprietà per un numero sempre maggiore di persone è illusoriamente diventata garanzia della loro libertà. L’individuo, si pensava, è libero nella misura in cui è proprietario della propria persona e delle proprie capacità; l’ essenza dell’ uomo consiste nel non dipendere dalla volontà altrui, e la libertà è funzione di ciò che si possiede.

Con il diffondersi del pensiero unico e l’indebolimento delle culture socialiste e comuniste, prevale una concezione della società come una “massa di individui liberi e virtualmente uguali”, in rapporto fra loro in quanto proprietari delle capacità e di ciò che hanno acquisito mettendole a frutto. La società così intesa consiste di relazioni di scambio tra proprietari: scambi negoziati, auspicabilmente secondo chi governa, con l’esclusione del conflitto. Ma questo non funziona in un sistema finito, in cui alcuni beni deperiscono all’utilizzo, la condivisione è necessaria al loro mantenimento e la loro trasmissione ai figli dipende da una accorta conservazione e dall’attenzione alla rinnovabilità. Dichiarare questi beni come “comuni” è dettato da esigenze di difesa; non essendo poi prodotti da singole persone, il titolo di proprietà privata non trova per essi fondamento. Anzi, sotto questo profilo, la proprietà privata, assurta dalle culture liberali a sinonimo di libertà, non solo non crea più libertà, ma diventa sempre più incapace di tutelarla.

Dove in effetti la sfera proprietaria arriva a confliggere irrimediabilmente con la stessa sopravvivenza di una società (che è qualcosa di perfino più cogente del venir meno della giustizia sociale)? Quando ci si imbatte con beni e valori che non possono essere ridotti a merce e perciò privatizzati e consumati al ritmo imposto dalle leggi del mercato in un pianeta con sette miliardi di abitanti. Per di più, abbiamo imparato che la definizione di “bene comune” va oltre alla considerazione della finitezza, della non rinnovabilità  e del limite della natura: ci sono beni dei quali possiamo disporre senza trasformarli in bene economico, ma rispetto ai quali siamo favoriti o impediti dallo stare in una particolare società o comunità. La salubrità dell’aria, ad esempio, dipende in certa misura dai comportamenti, dai modelli di produzione e di consumo organizzati nel territorio.

L’accesso alle conoscenze dipende anche dalla libertà di fruirne gratuitamente e liberamente. La comunità di riferimento è quindi essenziale. Qui occorre accordarsi o perlomeno discutere un punto  che potrebbe rappresentare oggi uno dei discrimini tra essere di destra o di sinistra: il singolo, l’individuo, può realizzarsi pienamente solo in quella comunità che chiamiamo genere umano e possiamo aggiungere, solo ripensando il pianeta con tutte le sue creature. La dimensione del mercato, anche di quello fattosi “globale” è misera cosa rispetto a questa visione, che riattualizza Marx  ben oltre le esegesi più ortodosse. Ma proprio qui  ricominciano i drammi che, secondo un sociologo come Peter Kammerer,  “ci portano al nodo costituito dal rapporto conflittuale tra individui possessivi e i beni che escludono il possesso individuale”. Il guaio dei beni comuni è che hanno valore, ma nessun prezzo. Non avendo un prezzo, i beni comuni tendono a essere invisibili per il mercato. E il mercato non solo non li ripaga, ma tende a distruggerli e a impedirne la trasmissione alle future generazioni. Si giunge allora a  beni che una determinata comunità ritiene indispensabili per la propria riproduzione (e felicità) e che perciò vanno prodotti, curati e fruiti in una logica “comune” che non coincide necessariamente con gli interessi individuali. Non si tratta semplicemente di eludere o di sopprimere la proprietà privata, bensì di trovare nuove modalità di “appropriazione del mondo” che non passino attraverso le angustie dell` interesse individuale espresso in denaro. Le categorie che entrano in gioco sono quelle della biosfera, della vita, della civiltà,  ed è in funzione loro che va rilanciato il valore sociale del lavoro e il concetto di cittadinanza, che non sono propriamente e in sé beni comuni, ma consentono di associare ad una nuova idea di libertà e fraternità quella non meno necessaria di uguaglianza.

Oltre a respingere il mercato, c’è da chiedersi se basta il principio di maggioranza con un sistema  “una testa un voto” per orientare una comunità nella fruizione dei  beni comuni. L’esperienza in corso dice di no e anche questo fatto è di un certo rilievo. Senza forme di democrazia diretta e di ricerca dell’unanimità del consenso non si governano rapporti sociali che non passano in nessun modo dalla proprietà e dal mercato.

A titolo di esempio provo ad esaminare cosa comporta considerare le fonti di energia naturali un bene comune e ricorrere ad esse in sostituzione dell’energia fossile, “regina” del mercato nella prima e nella seconda rivoluzione industriale. Essendo diffuse e integrate nel territorio “appartengono” in effetti alla comunità. Rappresentano la  “condizione per fare le cose”, una sorta di “misura del possibile” per l’organizzazione produttiva e sociale e, probabilmente, per la sua qualità. Sono fruibili in forma gratuita, mentre le infrastrutture che ne captano il contenuto energetico e le tecnologie di accesso possono far parte in forma consortile della dotazione della comunità, secondo i modelli (fiscalità e tariffe sociali) che in passato hanno regolato la costruzione degli acquedotti che tutti noi conosciamo. Oltre che consentire di organizzare l’accesso al “comune naturale” (ad esempio acqua e cibo) e al “comune intellettuale”, ovvero a tutta la complessità della produzione immateriale contemporanea, che definisce i diritti di cittadinanza più evoluti, non inficiano la salute dell’ecosistema  (la capacità di rigenerare le condizioni per la vita) scongiurando cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità e di fertilità.

Acquistano lo status di beni comuni quando l’intera comunità partecipa a progettare “la captazione” dell’energia dalle fonti naturali, attraverso la tipologia e il posizionamento degli impianti, la modifica dei piani regolatori, la creazione di spazi all’interno del disegno urbanistico, i piani di viabilità e i limiti del traffico, le aree per le attività lavorative e sociali: come sta già accadendo per il ridisegno integrale di alcuni nuovi quartieri (ad esempio nella città di Lienz).

In definitiva, nel caso del sistema energetico fondato sulle rinnovabili, sul risparmio e su una riconsiderazione degli stili di vita, la libertà e la democrazia non convivono necessariamente, come ha sempre affermato il pensiero liberale, con la proprietà privata, ma sono assicurate dall’accessibilità e dal realizzarsi della comunità intesa come sistema di relazioni e di autogoverno che assicura un contenuto di giustizia democraticamente perseguito.

UNA POLITICA EUROPEA DEI BENI COMUNI

Le osservazioni fin qui svolte e il percorso indicato non possono fare a meno di incrociare le istituzioni, anche se in una forma non ripetitiva del passato. Di fronte alla drammaticità della crisi sistemica, non basta unificarsi nelle “narrazioni” e neanche basta la sperimentazione parallela di nuove pratiche sociali. Questi sono necessari e buoni punti di partenza, ma l’iniziativa deve svilupparsi fino a raggiungere un livello critico, per arrivare ad individuare come controparte anche la politica statale e quella europea. Per ottenere, cioè, attraverso grandi scelte pubbliche, il rilancio della spesa pubblica nei settori dell’economia ecologica e dei beni comuni, con l’obiettivo della piena occupazione e di un’autentica estensione del welfare, per ridefinire istituzioni che oggi vanno in direzione contraria. Soltanto attivando risorse di partecipazione e creatività e impegnando finanziamenti pubblici – che la Tobin Tax dovrebbe inizialmente contribuire a creare –  si potrà, come seppe fare Roosvelt dopo la crisi del ’29, dirottare risorse dalla  salvezza delle banche e degli speculatori verso il mondo del lavoro e l’interesse comune.

A livello nazionale si può ricominciare dal fatto che abbiamo già a disposizione una proposta legislativa innovativa, quella che muove dal lavoro della commissione Rodotà, che potrebbe utilmente essere collegata all’iniziativa per ottenere sia la ripubblicizzazione del servizio idrico, sia  la sostituzione delle energie rinnovabili alle fonti fossili, sia la riduzione del consumo di suolo. Per creare le condizioni per un salto di qualità, andrebbe costituita una sorta di rete di secondo livello tra comitati e movimenti già esistenti, che sarebbe contemporaneamente sede di elaborazione teorica e di coordinamento di iniziative e che poggerebbe su Forum tematici di settore (l’acqua, l’energia, l’alimentazione, la conoscenza, la messa in sicurezza del territorio) e su Forum territoriali di progettazione sociale, e dunque anche di pratica sociale.

A livello europeo è indispensabile ricreare un senso di appartenenza, di comunità, che a livello continentale è andato smarrito. Solo così si può evitare che la contestazione dell’euro diventi tout court la fine dell’entità politica europea e l’avvio di una possibile balcanizzazione del Continente. Aver messo sempre di più i beni e i servizi del welfare sul mercato ha mercificato e monetizzato il vivere insieme e sottomesso i 500 e più milioni di cittadini dell’Ue attuale alla dittatura dei rendimenti finanziari a breve termine. E’ ancora possibile annodare l’approccio sociale (partendo dai contenuti politici) con l’approccio istituzionalista (ripartendo dal governo federale europeo)? Sì, se si ricomincia da una strategia di disarmo dei poteri finanziari. E se si ricomincia dando ai cittadini il potere che è loro, con l’adozione di metodi e pratiche di democrazia partecipata. La priorità è arrestare a livello europeo la mercificazione dei beni essenziali e insostituibili per la vita e il vivere insieme. Si tratta, in definitiva e in un disegno ambizioso, ma entusiasmante, di togliere alle logiche del mercato e della finanza privata il governo continentale dei beni comuni.

Condivido qui la proposta avanzata da Riccardo Petrella: che tutti i movimenti si diano come obiettivo comune una campagna per la promozione di una Comunità europea dei beni comuni. Si tratterebbe di una Comunità dotata di poteri sovranazionali per quanto riguarda la terra, l’energia, l’acqua, l’aria, l’ambiente, la conoscenza, la sicurezza (nelle sue declinazioni essenziali: militare, energetica, alimentare, idrica, geologica,finanziaria) e finalmente dotata di una rivalutata carta dei diritti del lavoro, che deve tornare ad essere obiettivo del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori. Una battaglia avviata con molte incertezze dal Forum Sociale Europeo dieci anni fa in occasione della discussione della Costituzione Europea e oggi più che mai attuale in una rivisitazione dei conflitti che la crisi sta riposizionando su scala mondiale