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Energia

I CONTI IN TASCA AL NUCLEARE

Mario Agostinelli

Non ci sono argomenti che rendano oggi plausibile un ritorno al nucleare e le critiche di  ordine scientifico, economico ambientale e sociale avanzate ai tempi del referendum oltre vent’anni fa verso questa ‘fonte di energia’ mantengono inalterata la loro validità. Sulla scorta delle nuove conoscenza e dell’evoluzione degli scenari ambientali e economici, sono anzi ancora più convincenti.
Non solo. Ad esse, se ne aggiungono di nuove, altrettanto solide. Nonostante le apparenze, infatti, il nucleare non fornisce alcuna risposta convincente all’emergenza climatica in corso e il ricorso all’atomo potrebbe rivelarsi fatale per un’economia fragile ed espostissima alla crisi finanziaria. Eppure il “sentimento prevalente” del Paese sembra rivelare una banale sottomissione alla sciagurata campagna di rilancio condotta dal Governo Berlusconi e supportata dall’opportunista “gotha” dell’economia italiana. Di seguito alcuni appunti per  uscire dal torpore.

1) L’inefficacia e la sfasatura temporale di un’impresa dissennata

Secondo l’IPCC, al 2020 saremo già in piena emergenza climatica se non interverranno prima cambiamenti radicali, sia in termini di riduzione dei consumi sia per quanto riguarda il blocco delle emissioni di CO2. Con questi tempi ravvicinati il ricorso al nucleare risulta pressochè ininfluente.

Nel caso di un impianto nucleare, previsto per  40 anni di durata di funzionamento, occorrono almeno tutti i primi 9 anni di esercizio per pareggiare l’energia immessa nella costruzione e nell’approntamento. Tenuto conto di almeno 4 anni di costruzione e di altri 5 precedenti tra localizzazione e progettazione, un sistema che sviluppa 1 impianto/anno darebbe energia netta positiva solo dal 19° anno (anche nel piano iperottimistico di Scajola arriveremmo realisticamente al 2028). Nel caso italiano, se tutto andasse al meglio, solo dal 2028 il bilancio energetico della filiera nucleare andrebbe in pareggio, purchè si costruisca ogni anno meno del 19% di nuovi impianti.

Anche se si raggiungesse entro il 2030 l’obiettivo buttato lì da Berlusconi – e cioè il raddoppio nel mondo delle centrali nucleari esistenti – per le emissioni globali di CO2  ci sarebbe una riduzione solo del 5% . Eppure, occorrerebbe aprire una nuova centrale ogni 2 settimane da qui al 2030, spendendo una cifra tra 1000 e 2000 miliardi di euro, aumentando il rischio di incidenti, scontando una proliferazione nucleare e aggravando la questione irrisolta delle scorie. Una autentica follia.

Se poi guardassimo oltre il 2030, il nucleare dovrebbe arrivare a pesare almeno per il 20-25% del mix elettrico per rallentare significativamente il cambiamento climatico. Occorrerebbero cioè almeno 3000 centrali nucleari in più (oggi sono 439) : 3 nuove centrali in funzione al mese fino a fine secolo, con prezzi  alle stelle dell’uranio in via di esaurimento ben prima del compimento della mastodontica e insensata impresa.

Anche costruendo una centrale al giorno per 50 anni di fila (!) si otterrebbero, con enormi impieghi finanziari e con effetti ambientali catastrofici, “solo” 10 TW a fronte dei 30 TW previsti se non si abbattono i consumi. Ma l’uranio sarebbe andato ad esaurimento ben prima del compimento dell’assurdo e titanico sforzo!

2) Clima e acqua: emergenze ambientali

Emissioni CO2 , tutt’altro che trascurabili
Lungo l’intero ciclo di vita dell’uranio, dall’estrazione del minerale alla sua fissione nel reattore, si registrano emissioni di CO2  sì inferiori, ma comunque confrontabili con quelle che accompagnano il ciclo del  gas naturale. Sono emissioni connesse all’esercizio di una centrale complessa, ma soprattutto alle fasi relative alla costruzione, all’avvio del funzionamento e al posizionamento in loco del combustibile fissile, che possono avvenire attualmente solo con l’impiego molto elevato (ben più che nelle corrispondenti fasi del ciclo del carbone o del petrolio o del gas) di fonti fossili nell’area di costruzione  e in miniera. Inoltre, per motivi di sicurezza gli impianti nucleari pretendono per l’edificazione enormi quantità di acciaio speciale, zirconio e cemento, materiali che per la loro produzione richiedono carbone e petrolio. Considerando questi fattori nel loro insieme, si calcola che la CO2 emessa nel ciclo completo di un impianto nucleare corrisponda all’incirca al 40% di quella prodotta dal funzionamento per un periodo equivalente di una centrale di pari potenza a gas naturale. Attenzione però: in questo calcolo non è compresa l’energia necessaria per lo stoccaggio finale dei rifiuti, il cui computo non è possibile per mancanza di esempi da analizzare.

Energia prodotta, solo elettricità
L’efficienza degli impianti a energia nucleare è bassa ed è destinata solo alla fornitura di elettricità, che costituisce solo il 15% degli usi finali di energia nel mondo (il restante 85% è costituito da carburanti per i trasporti e calore per riscaldamento e processi industriali, opzioni non disponibili per l’energia atomica). Nonostante la enorme quantità di calore che gli impianti nucleari disperdono nell’ambiente, perché esso venga utilizzato si richiederebbe la vicinanza di un grande bacino di utenza, cioè di una grande metropoli. È ovvio però che, per motivi di sicurezza, una centrale nucleare non può essere costruita nelle immediate vicinanze di grandi agglomerati urbani o di centri di produzione industriale.

Acqua, consumi  eccessivi
Un aspetto fortemente critico, sempre taciuto, nel processo nucleare è la grande quantità di acqua necessaria. Per evitare rischi di incidente catastrofico l’acqua ai reattori non può mai essere sospesa, e deve fluire, per asortare l’eccersso di calore, in volumi 10 volte superiori a quelli necessari nelle centrali tradizionali, con dispersione in vapore in aria e ritorno nel letto a elevata temperatura. Dove le filiere atomiche hanno subito una attenzione continua , uno sviluppo aggiornato e una diffusione massiccia, come in Francia,  la crisi idrica si è già manifestata.  In questo Paese il 40% di tutta l’acqua fresca consumata va a raffreddare reattori nucleari.

3) Sicurezza

La contaminazione ‘ordinaria’
Il nucleare comporta seri e irrisolvibili problemi di sicurezza. A 22 anni dall’incidente di Chernobyl, non esistono ancora garanzie né per la contaminazione radioattiva da funzionamento, né per l’eliminazione del rischio di incidente nucleare catastrofico. Tutti i problemi legati alla contaminazione “ordinaria”, ineliminabile, rimangono aperti. Questa deriva dal rilascio di piccole dosi di radioattività nell’estrazione di uranio e durante il normale funzionamento delle centrali, non rilevabili in tempo reale, ma solo registrabili per accumulo a posteriori. Vi sono esposti i lavoratori, come nel caso dei tre recentissimi incidenti consecutivi di Tricastin , in Francia, e la popolazione che vive nei pressi della centrale, come nel caso, anch’esso molto recente, di Krsko, in Slovenia.

Il rischio ineliminabile di incidenti catastrofici
In un processo di combustione, se si spegne l’impianto, cessa anche la produzione di calore. In una centrale nucleare, invece, anche quando la reazione a catena viene “spenta”, i prodotti di fissione presenti nel nocciolo continuano a liberare una notevole quantità di calore. Se non può essere rimosso, questo determina la fusione del combustibile e il rilascio catastrofico di materiale radioattivo, che si disperde nello spazio e permane attivo nel tempo in misura mai sperimentata da esperienze umane precedenti. Si tratta di una eventualità insopprimibile, di una probabilità di catastrofe prevista e connaturata alla progettazione, che rende imponderabile il rischio nucleare. Nonostante l’enfasi che si vuole porre su una ipotetica “quarta generazione” (operativa solo dopo il 2030 (?), in cui i reattori sarebbero in grado di eliminare parte delle scorie (?), che impiegherebbe miscele di combustibile meno pericolose (?)),  oggi possono essere realizzate solo centrali intrinsecamente insicure.
Scorie, un problema irrisolto (irrisolvibile?)

Quello delle scorie radioattive è tra i problemi più noti in relazione alle centrali nucleari. È del tutto inedito per la natura che ci circonda l’impatto ambientale generato dalla produzione di queste scorie, che inevitabilmente si accumulano nell’ecosistema e graveranno sulle future generazioni per migliaia d’anni.

Non esistono a oggi soluzioni concrete al problema. Le circa 250mila tonnellate di rifiuti radioattivi prodotte finora nel mondo sono tutte in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivi.
Negli Stati Uniti sono immagazzinate, per ora, in contenitori speciali da 10 tonnellate, del costo di 700.000 euro ciascuno. Ogni anno un reattore da 1000 Mw riempie due contenitori, mentre il problema rimane senza soluzioni tecniche definitive, producendo effetti incommensurabili sul piano economico. Sarebbe  impossibile affrontarlo ex-novo su scala nazionale e irresponsabile trascurarne le conseguenze. In Italia, tuttavia, nel Governo attuale nessuno mostra di preoccuparsi delle 150 tonnellate annue che verranno prodotte dall’ipotizzato piano nucleare.

4) Esauribilità e costi economici

Uranio, sempre più scarso e più caro
Le quantità conosciute di minerale di uranio con un “grado” di isotopo fissile superiore allo 0,01% sono molto limitate e la maggior parte delle risorse sono “low grade”, cioè a basso tenore. Con il contributo attuale alla produzione elettrica mondiale di circa il 16%, le riserve di “high grade uranium ores” possono durare pochi decenni, con prezzi sempre più alti. Secondo le stime del World Energy Council, l’uranio estraibile a costi convenienti è dell’ordine di 3,5 milioni di tonnellate, a fronte di un consumo annuale di circa 70 mila tonnellate. Al ritmo di consumo attuale, dunque, l’uranio fissile altamente radioattivo è disponibile solo per 40-50 anni. Se crescesse il numero delle centrali, inizierebbe verosimilmente un’accesa competizione internazionale per accedere a questa risorsa scarsa e si potrebbe riproporre una situazione del tutto simile a quella delle “guerre per il petrolio”.

L’insostenibilità economica del KWh nucleare
Il ciclo nucleare ha  costi diretti e indiretti troppo elevati, e proprio per questa ragione destinati a essere scaricati sulla collettività. Di fatto, il nucleare è la fonte energetica più costosa che ci sia.
Negli ultimi anni, il prezzo dell’uranio è esploso, passando dai 20 $ per libbra del 2000 ai 120 $ per libbra del 2007 (6 volte tanto) e si prevede continuerà a salire, in relazione alla sua scarsità. Ma, oltre a ciò, gran parte del costo dell’elettricità da nucleare è legato a quello per la progettazione e realizzazione delle centrali, che è almeno il doppio di quanto ufficialmente dichiarato, e per i cui investimenti si prevedono tempi di ritorno di circa 20 anni. Se a questo si aggiungono anche i costi di smaltimento delle scorie e di decommissioning degli impianti, le cifre diventano addirittura imprecisabili, ma comunque largamente più elevate di ogni altra fonte.
Dove il KWh da nucleare risulta  apparentemente poco costoso è perché lo stato si fa carico dei costi per la sicurezza, per la ricerca e per gli inconvenienti di gestione, ma soprattutto di quelli per lo smaltimento definitivo delle scorie e per lo smantellamento delle centrali. Sono proprio questi costi e la possibilità di ripensamento dei governi in crisi finanziaria, ad aver scoraggiato gli investimenti  privati negli ultimi decenni.
Nel caso dell’Italia, nonostante la propaganda di Scajola e soci, il nucleare non consentirebbe in alcun modo di ridurre la bolletta energetica. Infatti, per un totale di 10-15mila MW di potenza installata su una decina di impianti, occorrerebbe costruire da zero tutta la filiera, con un immenso esborso di risorse pubbliche per un investimento tra i 30 e i 50 miliardi di euro (scorie escluse) che potrà dare i primi ritorni solo dopo 15 o 20 anni e che si rifletterà in bollette più salate.

Ma….perchè mai “pretendono che la gente salga su un aereo molto costoso per il quale non esiste nessuna pista di atterraggio?” (Uhlrich Beck)