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Il cancello di Arundhati Roy

disuguagliaze sociali

Mi è stato chiesto da Franco un intervento da ex-sindacalista sul futuro del lavoro dopo la pandemia. Ho ripensato più volte a come circoscrivere un tema tanto ampio e chiedo scusa solo per non averlo saputo contenere – come mi era stato suggerito – in poco più di tre cartelle. Con una certa apprensione mi assumo la responsabilità delle osservazioni che seguono in qualità di semplice iscritto alla CGIL, consapevole, da un lato, del ruolo che le lavoratrici e i lavoratori potranno assumere nella drammatica e straordinaria fase attuale, ma, dall’altro, anche dello smarrimento che sta attraversando il mondo cui sono anche affettivamente legato. Parto comunque dalla convinzione che questa pandemia abbia innescato una presa di coscienza di massa del cambio d’era in corso. Il coronavirus ha messo in ginocchio anche i potenti e ha dato una frenata al mondo come nient’altro prima. Non basterà più il negazionismo per non affrontare le emergenze e l’intera società dovrà ripensarsi. Il sindacato deve anch’esso ridefinirsi, deve anch’esso “attraversare il cancello” descritto da Arundathy Roy, come riprenderò più avanti.

GLI INSEGNAMENTI DELLA PANDEMIA PER IL SINDACATO

Proporrei al sindacato una grande assemblea unitaria di gruppi dirigenti e delegati in cui si faccia un bilancio di quanto si possa trarre dall’esperienza di questi due mesi di “sciopero involontario” ai fini di un salto di strategia del sindacato.

L’aumento della disuguaglianza sociale e della precarietà del lavoro e dell’esistenza, la disuguaglianza di genere, la crisi climatica e la disponibilità finita di risorse naturali si sono rivelate in tutta la loro materialità come prodotto del comportamento della specie umana, del conflitto sociale che la attraversa ora e dell’interdipendenza tra tutto quanto proviene da una storia comune, ovvero, da una stessa origine che si data circa 14 miliardi di anni fa’. Una storia fatta di interconnessioni e successive cosmogenesi, che relegano ai margini l’antropocentrismo e il patriarcato che ha caratterizzato lo sviluppo in occidente, per superare il paradigma della produzione espansiva, dettata dalle regole della massimizzazione del profitto e dall’ostinato negazionismo delle emergenze verso cui si sta accelerando. Si sta producendo in questo ultimo lustro un’analisi assolutamente previdente e realistica della realtà che ci circonda, in cui il lavoro, la sua durata, la sua destinazione vanno riconsiderati in base a rapporti di forza, intenti unitari ed alleanze oggi inadeguate, se si valuta la solitudine terrificante con cui il contagio ha aggredito attivi e pensionati protagonisti delle lotte più avanzate dello scorso secolo. Intanto, pure nella ricca Milano – modello massmediatico virtuoso di economia digitale e (apparentemente) immateriale ma insieme precarizzata – è in aumento la povertà, proprio anche tra quelli che erano rimasti al lavoro in ruoli “essenziali”, ma assai spesso da precari e non regolari.

Lo smart working è diventato e rimarrà per molti mesi “obbligatorio”, mentre nessuno cerca di capire se la famosa e glorificata Industria 4.0 fosse davvero il nuovo che avanza o solo la riverniciatura digitale del vecchio taylorismo che Bonomi e Confindustria sponsorizzano assieme all’abolizione dei contratti nazionali.

Intanto, non illudiamoci che i social ci abbiano salvato dalla solitudine e dalla depressione del confinamento in casa; la pandemia ha piuttosto offerto l’occasione per averci ancora più connessi con essi, offrendosi come intrattenimento, svago, divertimento, torte fatte in casa, grigliate condivise via Zoom (un dispositivo ulteriore di tracciamento e vendita di dati personali), lezioni sul pc e palestre fai da te. Ovvero: i social sono stati ancora una volta una potentissima “industria culturale 2.0”. E allora, come e con quali attrezzi si va alla contrattazione e alla rappresentanza dentro questi “nuovi paradisi”?

Da quando siamo stati confinati, ci siamo resi conto che siamo esseri territorializzati, incapaci di vivere esclusivamente in modo virtuale, mettendo da parte ogni elemento di corporeità. Milioni di individui fanno oggi l’esperienza nei loro corpi che la vita non è qualcosa di strettamente personale. Il lavoro sospeso ci ha anche privato di contatti relazioni, perfino di movimento e fatiche. Avremo di nuovo il delegato sindacale che riprende il discorso interrotto l’anno passato? Inoltre, l’epidemia ha portato il concetto di morte nelle nostre vite in un modo in cui prima non era presente. Si rischia non poco nell’andare al lavoro ed i salari non valgono abbastanza. Il distanziamento e la mascherina entreranno anche in fabbrica, negli uffici, sugli autobus. Quindi, la ripresa dovrà essere ovunque l’occasione per discutere seriamente, oltre alla protezione dal virus, della salute nei luoghi di lavoro, dell’inopportunità di inquinare e sprecare, dell’effetto degli straordinari e dello stress sul credito di cura maturato, delle condizioni che fanno sì che malattia e morte accompagnino normalmente la vita di chi lavora.

Avendo imparato che la vera fonte di valore sono le nostre relazioni umane e quelle con l’ambiente, contrasteremo allora più decisamente le privatizzazioni che mettono a rischio vite umane.

Stando fermi e avendo avuto modo di osservare quanto differentemente ciascuno dei nostri vicini aveva da parte, e in che condizioni svolgeva la nostra e la loro quarantena (mentre abbiamo visto scomparire alla nostra vista i migranti) abbiamo constatato che la ricchezza prodotta e sequestrata in mano a pochi è più che sufficiente a garantire un’esistenza dignitosa a tutti gli abitanti e che la crisi ecologica e climatica è per la prima volta una crisi causata dalla sovrapproduzione e non dalla penuria. Non si è realizzata alcuna equità nella redistribuzione di ricchezza, ma un carico di lavoro abnorme che si sfrangia sempre più in segmenti di precarietà a ritmi elevatissimi e in assenza di diritti: il legame tra lavoro, uguaglianza e cittadinanza è sempre meno evidente.

Ora sappiamo che gli Stati sono in grado di prendere misure drastiche se lo desiderano – e che potrebbero persino intervenire nei diritti di proprietà delle grandi società. Ma per programmare la produzione e limitare i consumi (cosa detestabile per i liberisti, ma doverosa se si considera, come accennato sopra, che tutto risulta intrinsecamente connesso in un ambiente naturale finito) occorre iniettare una dose di liquidità che solo lo stato (l’Europa!) è in grado di controllare e mettere a beneficio, anche per creare nuovi posti di lavoro capaci di assorbire quelli che andranno sostituiti nelle filiere decotte.

Che il Sud abbia avuto meno contagiati e meno morti del Nord non è un caso, perché quest’ultimo, pur essendo più ricco e con minore disoccupazione, ha scontato gli effetti di quattro decenni di politiche neoliberiste che hanno eroso drammaticamente le sue infrastrutture sociali, nate per sostenere la vita allorquando più forte era il movimento operaio. Forse dovremmo ripartire anche dai più poveri e, nel caso, rivalutare da settentrionali arroganti l’area del Mediterraneo, per trasformarlo da una frontiera invalicabile, da un mare di morte, in un’area di scambio di cultura e di vita, senza l’ansia di dover per vocazione “oltrepassare” le Alpi e sbarrare la strada ai migranti.

RIDURRE IL TEMPO DI LAVORO

Fatte alcune considerazioni sull’insegnamento che una esperienza collettiva così straordinaria può produrre sul sindacato, vengo ora ad un passaggio che ritengo risolutivo per far entrare in gioco con il loro potere contrattuale lavoratrici e lavoratori.

Credo che verranno tempi terribilmente duri per il lavoro, sia perché il cambio di passo immancabile non potrebbe prescindere dall’esperienza di vita e di morte che qui in Lombardia ha attraversato tutti e nove i milioni di abitanti, sia perché un rilancio “tout court” dell’economia, nella presunzione che sia essa e non la vita “il” bene primario, non sarebbe più in grado di restituire il tempo rubato alla cura di sé, degli altri, del pianeta: un tempo che la fermata delle attività ci ha fatto rivalutare. Presumo che, a fronte di questa consapevole forma di resistenza a ritornare tal quali eravamo e ci comportavamo, si farà intransigente la pretesa dei gruppi dominanti di reprimere qualsiasi conflitto “per un mondo diverso”, pur di trascinarci da un’emergenza all’altra dentro una mancanza di tempo, che costituisce la cifra drammatica del presente. E, con il ricatto dei licenziamenti e di una accresciuta precarietà, si proverà a “sintonizzare” il movimento sindacale su un percorso di un immancabile ritorno “a prima”. Le prese di posizione di Landini sembrano nette e confortanti al riguardo, ma la dimensione planetaria della crisi non ha ancora messo in luce a livello globale un antagonista che tagli la strada al liberismo, fatta eccezione per papa Francesco, il movimento degli studenti e il movimento delle donne. Non è, cioè, entrato ancora in campo un soggetto irriducibile come potrebbe essere il lavoro, le cui rappresentanze sindacali europee e sovranazionali mantengono un silenzio impressionante.

Possiamo solo stupirci del fatto che la sinistra sociale, dopo il decennio dei Forum Sociali, non abbia scelto di prepararsi per tempo al cambio d’era. Ha scelto invece di frammentarsi ostinatamente, dopo aver “sorvolato” sull’ecopacifismo che ancora manifestava nelle piazze senza trovare la sua rappresentanza politica ed aver ignorato per oltre cinque anni l’analisi e i contenuti della Laudato Sì, ridotti a categorie dello spirito financo in giorni drammatici come gli attuali.

Ma la rottura delle pandemie ha sempre forzato gli uomini a rompere con il passato e a immaginare un mondo nuovo. Questa volta – e qui riprendo la metafora di Arundhaty Roy- il contagio da coronavirus è addirittura più urticante: “siamo di fronte ad un cancello, un portale, un passaggio da un mondo a quello successivo. Possiamo scegliere di attraversarlo, trascinandoci le carcasse dei nostri pregiudizi e del nostro odio, la nostra avarizia, i nostri dati bancari e gli ideali ormai morti, i fiumi e i cieli inquinati. Oppure possiamo attraversarlo alleggeriti, pronti a immaginare un nuovo mondo. E a combattere per esso”. Qui è possibile rintracciare un ruolo non difensivo, ma conflittuale e coraggiosamente creativo del sindacato.

L’emergere della dimensione politica del tempo – o dei tempi – dopo l’avvenuta sua “colonizzazione” ad opera dei fautori della globalizzazione, dovrebbe ispirare, se non dominare, il “dopo” pandemia, per incoraggiare e sostenere modelli, relazioni, e – perché no – lentezze più che velocità, talché non si sprechino ulteriormente le risorse naturali, non venga sacrificato il diritto al tempo proprio e alla salute e si ricomponga una sintonia con i cicli biologici. Occorre rendersi conto che la capacità trasformativa che il sistema capitalistico ha accumulato a fini di profitto e a danno di natura e lavoro, va rapidamente riconvertita, con il contributo indispensabile di un accresciuto potere e di una riconosciuta autonomia del lavoro.

Ritengo a tal fine indispensabile rivendicare da subito nei contratti e per legge una consistente riduzione dell’orario a parità di salario, da graduare con alternanze di studio e tempo liberato per le attività di cura e per favorire la partecipazione democratica. Rimettere in piedi la questione dell’orario risulterebbe decisiva. Si tratterebbe di una disponibilità sottratta al circuito costrittivo della produzione e del consumo, che metterebbe in gioco le migliori risorse di milioni di uomini e donne per programmare entro la metà del secolo la completa decarbonizzazione dell’economia, un ridisegno della mobilità ad uso collettivo, un piano massiccio di investimenti e risorse pubbliche verso un sistema energetico decentrato e sostenuto dalle fonti rinnovabili. E, contemporaneamente ampliare verso la cura, l’istruzione e la ricerca, l’intervento pubblico. La salute è solo un esempio: anche l’ambiente, la scuola, la cultura, la biodiversità, l’acqua, il suolo e il cibo sono beni comuni globali che vanno nutriti di tempo loro dedicato. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società L’agricoltura stessa può essere una leva decisiva del rilancio economico, una volta liberata dalla mafia e dalle monocolture omologanti dipendenti dalla chimica.

Quella di restituire tempo proprio e a fini sociali mi sembra l’occasione per ridurre la divaricazione odierna tra lavoro ed esistenza, tra economia e vita e per avviare politiche sociali e di welfare che facciano i conti con le emergenze del nostro tempo (clima, nucleare e ingiustizia sociale). Un programma radicale, ma, a mio avviso, indispensabile per riconsegnare al lavoro la “cifra” che gli consegna la Costituzione.

Si può obiettare che le condizioni politico-economiche non consentono un balzo in avanti così ambizioso Il fatto è che lo scoppio della pandemia da Covid-19 ha provocato un brusco atterraggio sulla realtà, che fa risalire le radici di questa crisi sanitaria nella crisi verticale della struttura economica e sociale che ha retto fin qui le sorti del mondo. Non basta più il mondo della tecno-finanza, della globalizzazione, della rottura dei patti democratici tra istituzioni e élites per tener banco, Ci si chiede se quel sistema così iniquo sia in grado di garantire i processi vitali del pianeta. Anche sul piano civile e culturale, oltre che per la sua coscienza di classe, il sindacato ha l’obbligo di fare chiarezza, di contribuire alla svolta e di impedire che ci si limiti ad una visione diretta, immediata, del giorno per giorno. Come è infatti successo con lo stillicidio dei numeri dei morti, degli infettati, dei dismessi, con lo stato dei pronto soccorso o delle terapie intensive, senza prendersi cura di comprendere la natura di ciò che sta realmente accadendo, pur di mantenere la logica della ripresa, del “ripristinare” ciò che l’arrivo del virus ha interrotto. Se ci pensiamo bene, siamo – e il sindacato deve farsene carico per le lavoratrici e i lavoratori che rappresenta – ad una necessaria rilocalizzazione di tutta l’attività umana.

Il tentativo più probabile sarà quello di approfittare dell’emergenza di queste settimane per alimentare il controllo sociale, rafforzare i poteri di polizia, ridurre al silenzio le voci critiche, mettere a rischio intere categorie di lavoratori in nome di un interesse nazionale. Una democrazia allargata e partecipata o un governo eterodiretto da Big Data ed algoritmi sono le due alternative. Si tratta di un “cancello tra un mondo e un altro, da attraversare con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso”. Il sindacato già nel dopoguerra ha dimostrato di saper costruire nei momenti decisivi l’unità e la propria autonomia su contenuti alla portata di una mobilitazione democratica e creatrice di alleanze durature nel Paese. E’ già successo nel dopoguerra e alla fine degli anni sessanta. Una ricaduta di tale iniziativa in ambito europeo potrebbe riaprire una stagione riformista forte e non verbalistica, senza lo spauracchio dei populismi dietro l’angolo.