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Forum Sociale Mondiale

Genova, Manhattan, Kabul, Perugia: un nuovo mondo? Mario Agostinelli, Segretariato CGIL per l’Europa

Premessa

A quale nuovo mondo ci apprestiamo e quale ruolo avrè in esso la lotta democratica per cambiarne la qualitè ed eliminarne l’ingiustizia, se il mondo stesso ci si presenta per eventi successivi densissimi di significato, di enorme impatto emotivo, che dovrebbero essere inquadrati ciascuno nelle coordinate della discussione e del ragionamento ed invece vengono sbalzati dagli schermi televisivi e dagli articoli dei giornali soltanto come punti di transito accelerato verso una globalizzazione inarrestabile e a senso unico?
Una omogeneizzazione del pianeta che non tollera che la societè e la politica si pongano in dissenso con gli indirizzi che il capitalismo vincente vuole imporre.

Tutti devono riflettere su come, pur nella drammaticitè di fatti che hanno inciso nelle coscienze, alcune evocazioni interessate di essi puntano a serrare le fila attorno ad una identitè superiore, che si ripromette in nome dei propri valori l’unificazione autoritaria del pianeta.

Queste interpretazioni parziali evitano invece ogni richiamo alla pluralitè sociale e culturale che sono l’essenza stessa del mondo e di conseguenza ftrattengono piè a lungo nelle nostre menti le immagini interpretative di alcuni eventi rispetto ad altri.

I disordini di Genova anzichè l’enorme e pacifico corteo che l’ha attraversata; il crollo delle Torri stipate di vita , di commercio, di relazioni e di benessere anzichè l’attacco al simulacro della potenza militare del Pentagono; le immagini arroganti e demoniache, prese dagli archivi, di Bin Laden e di Mohamman Omar anzichè le riprese in diretta di Al Jazeera dei derelitti civili morti a Kabul; il farfugliamento interpretativo di Rutelli, Fassino e Fini, anzichè le trecentomila persone che a Perugia hanno “fatto” la marcia.

Sembrerebbe che, contrapponendo sapientemente immagini a contrasto, si voglia richiedere al ragionamento critico di non posarsi con la sua autonomia sull’impressionante concatenamento dei fatti.

E’ l’epoca ancora degli estremi e degli ossimori che hanno segnato negativamente il Novecento e che oggi perè non sono nemmeno frutto di compromessi tra classi o fra potenze di diverse nazioni, ma solo il sintomo di un pesante senso di colpa o di una coscienza non irreprensibile.
Paradossi accettati, che perseguono un bisogno di identificazione e di primazia di una parte a discapito della complessitè e della pluralitè costitutiva di un mondo che ricerca un futuro comune: “guerra santa”, “amico-nemico”, “occidente cristiano”, fino alla “fine della storia, al “liberismo compassionevole”, alla democrazia efficiente”.

E’ decisivo come la cultura stia intrecciando le sue risorse alle potenzialitè enormi della moderna comunicazione e come questa macchina stia scandendo gli accadimenti di questi ultimi mesi in maniera tutt’altro che neutra, al punto che la loro interpretazione mediatica diventa uno dei punti di scontro da cui non puè prescindere la crescita del movimento “per un altro mondo possibile”.

La virtualitè va cosè infranta con successo dall’irruzione di grandi masse e dal coagularsi di emozioni in consapevoli speranze. In effetti è questa l’eventualitè su cui il movimento deve scommettere, ma che i padroni del mondo vogliono a tutti i costi evitare per rimanere soli sul proscenio di un’arena dove al massimo si applaude o si fischia, mentre le regole ed i numeri della democrazia perdono di efficacia. A volte ho il timore che alcuni leader del movimento in formazione non abbiano capito quanto la personalizzazione e la spettacolarizzazione li trascini su un terreno perdente, dove agisce da tempo una campagna di anticipo, di mistificazione, di “privatizzazione” delle sensazioni fino alla negazione violenta della articolazione delle opzioni ed alla militarizzazione del confronto quando esso si presenta con esiti aperti.

Che si potesse andare rapidamente nella direzione di un autoritarismo presidiato dalla violenza delle istituzioni l’avevano previsto in Europa ed in America i De Lillo, i Truffault, i Savater, i Rafael Alberti, i Grass, i Kubrick, ma nessuno di loro poteva immaginare che ci si potesse arrivare cosè presto. Sospinti certamente dalla criminalitè del terrorismo piè efferato, ma anche sguarniti di grandi idee dopo che una parte decisiva dell’ “Occidente” era giè stata calamitata dentro l’imbuto del pensiero che oscilla tra Fukuyama e Huntington.

Riflettiamo allora su di noi, dando sè finalmente per scontato l’aspetto devastante e pressochè irreversibile dell’attacco dell’11 settembre ed anche l’involuzione torbida del fanatismo islamico, ma anche non sottraendoci piè, ottenebrati dallo spirito di ritorsione e vendetta, ad una prospettiva di ricostruzione di una sicurezza sociale globale. Sicurezza che non puè proprio essere questione solo dell’Occidente da affrontare chiusi in una fortezza assediata e con una guerra.

Raramente quanto in questo periodo sono tornati in campo gli intellettuali e si sono mobilitati gli apparati dell’educazione e della cultura e gli uomini e le donne dello spettacolo. Sarebbe un guaio se la riflessione in corso nella rete “no global” non facesse i conti con la necessitè di partire da questo fatto in sè positivo, per volgerlo ad esiti piè avanzati e, comunque, diversi da quelli per cui il potere ne ha organizzato massicciamente l’intervento.

Una rivista come “Inchiesta” è la sede piè opportuna per una lettura autonoma di fatti che anche da parte nostra non possono essere tenuti slegati tra di loro e per l’introduzione di quella capacitè di “narrazione” – come indica Petrella – che deve investire un movimento ambizioso come quello che ha attraversato Seattle, Porto Alegre, Genova e Perugia.
In effetti le testimonianze di eventi della realtè sono oggi arricchite dalle immagini e dai suoni non solo dei tradizionali osservatori, ma degli stessi protagonisti che adottano strumenti di registrazione e produzione (fotocamere, cineprese, audioriproduttori) che, socializzati, preludono ad una specifica forma di produzione culturale, indipendente dalla versione degli apparati della comunicazione e confluente in una inedita “memoria attiva”.

Proverè allora anch’io a far emergere testimonianze, ragioni e dubbi, ambiguitè, “idee sotterranee che stanno venendo alla luce” – come si augura Habsbawn – e che solo un lavoro collettivo puè rendere produttive e stabilizzare in una direzione democraticamente scelta come diversa, alternativa.

Mi spinge a ciè l’appello di Giulietto Chiesa nel suo instant book “G8/ Genova” che, essendosi trovato nello stesso punto mio del corteo attaccato a freddo dalla polizia, ne ha colto l’impressionante carica repressiva ed ha chiesto ai presenti di partecipare alla ricostruzione di quei fatti sottraendoli alle lenti di regime che Vespa, Scialoja, Panebianco, e per certi versi anche il duo Lerner-Ferrara vorrebbero imporre ai cittadini diventati solo spettatori.

1. Genova

Avevo sfilato con il corteo promosso dai sindacati di tutta Europa a Nizza, nel dicembre 2000. Mi aveva allora colpito l’assenza degli abitanti e l’incredibile scelta delle autoritè francesi di farci marciare dentro quartieri svuotati in anticipo, cosè da rendere impossibile alcun contatto tra “specialisti” delle manifestazioni e cittadini “incidentalmente” ospitanti.

A Genova non mi ha quindi sorpreso che Berlusconi avesse deciso da par suo il passo successivo: non piè una cittè indifferente, ma una cittè in stato d’assedio, probabilmente deserta dei suoi abitanti perchè impaurita.
La logica di rendere fisicamente inagibile il diritto di parola laddove lo prendono i potenti del mondo ha a che fare con la messa in campo conseguente di un formidabile apparato di polizia e di persuasione.E magari con l’accettazione, non solo metaforica, dello scontro da parte di frange di movimento che non hanno ancora capito che la cosa piè inquietante da sostenere per il potere è che sia costretto ad alzare barriere, non a respingere assalti.

Nel conto di un disegno autoritario e di restringimento della democrazia, c’è evidentemente anche l’uso piè sapiente e raffinato dell’immagine: prima, durante e dopo l’evento.
E’ quanto è puntualmente avvenuto.

E’ bene allora ritornare, dopo l’evento, su quanto è stato e su quanto, invece, hanno cercato di far credere, ristabilendo un minimo di equilibrio tra l’informazione di chi ha costruito la violenza e l’informazione di chi l’ha subita soltanto.
Solo cosè si possono riportare al centro le motivazioni che hanno mosso oltre trecentomila persone – almeno cinquemila della quali organizzate dalla Fiom e dalla Cgil lombarda – prima del corteo, cioè prima del suo depotenziamento attraverso le immagini delle violenze ripescate ossessivamente dalla periferia della manifestazione o dagli scontri del giorno precedente.

Alle 16.00 del 21 luglio arrivo al distributore all’angolo di Via Casaregis, davanti a Piazzale Kennedy, lo stesso di cui Giulietto Chiesa parla a pagina 64 del libro citato. Ci arrivo dopo che i 37 pullman della Cgil Lombardia hanno scaricato grappoli variopinti di lavoratrici, lavoratori e studenti accuratamente registrati ed istruiti dai responsabili dei torpedoni con la stessa meticolositè delle gite scolastiche o parrocchiali.
Qualche scarto verso le viuzze o le spiagge di Boccadasse, per poi comporre un corteo coloratissimo ma guardingo, che segue la testa presa dai personaggi piè noti rinfoltendosi di giovanissimi, che avvertono sicurezza dietro le bandiere sindacali.

Al mio cellulare arriva la chiamata di un compagno rimasto a casa, davanti alla Tv. Mi avvisa che la cronaca è tutta dedicata agli scontri dei black block, che noi non riusciamo a vedere e mi raccomanda di non raggiungere Piazzale Kennedy che, a suo dire, sta bruciando, come ci conferma un fumo denso che si condensa lontano.

Mi avvicino agli altri dirigenti sindacali e assieme alla Fiom di Savona, casualmente confluita in quel punto, organizzo quel cordone di ragazzi e ragazze citato da Chiesa. Un cordone rado a tre file, che cerca di tenere separato il corteo da quello che accade nella piazza presidiata da ingenti forze di polizia apparentemente immobili.
Presto viene disturbato da quattro ragazzotti inglesi che ci accusano d’essere la “nuova polizia” e che non si allontanano nemmeno quando chiediamo a quelli che dovrebbero essere i responsabili dell’ordine di intervenire.
In effetti, non solo non c’è intervento,ma, al primo accenno di sfondamento verso i manifestanti di un gruppo di facinorosi coperti di indumenti in nero, parte una pioggia fitta di lacrimogeni sul corteo che, preso di sorpresa, sbanda, fatica a superare il distributore e si spezza.
Le linee degli uomini in assetto antisommossa si aprono e si chiudono sui gruppi di “Black block” totalmente estranei alla sfilata, che sembrano non subire disfatta alcuna. I quattro inglesi scompaiono, il cordone viene completamente travolto; fumo, sostanze irritanti e sbarre di ferro, tolte da transenne vicino al distributore, ci piovono addosso.
Lo smarrimento e l’angoscia sono grandi, terribili.

Assieme ad alcuni parlamentari cerco poco dopo di richiamare l’attenzione dei poliziotti, ma essi, mentre da una parte tagliano il corteo, dall’altra lo comprimono al punto da farlo schizzare verso portoni che fortunatamente si aprono o verso le scalinate che si ingolfano pericolosamente di una calca terrorizzata.

Quando il corteo spezzato si ricompone duecento metri a monte sotto le insegne sindacali e con la confluenza di svariati striscioni (Liberazione, Il Manifesto, Lilliput, Arci, Rifondazione, Attac, Manitese), si muove da una via laterale una colonna di mezzi che potrebbe imbottigliare ed isolare un troncone di manifestanti.
Alcuni di noi cercano di evitare il peggio e, dopo che i mezzi desistono dal procedere, finalmente la coda di quel che era il corteo di partenza – almeno centomila persone – si attesta sul lungo mare in una lunga attesa, con una autodisciplina impressionante. Alla fine, quel nuovo corteo sottratto allo scontro decide di invertire la sua marcia e di ritornare a Nervi per farsi raggiungere lè dai pullman per il ritorno.

Questa parte dei fatti di Genova è pochissimo documentata.
Si tratta, a mio giudizio, di qualcosa di straordinario, maturo, consapevolmente solido, tradotto dai partecipanti in un evento volutamente festoso, anche se la violenza inferta ha lasciato il segno.
S rifè la marcia a ritroso, ordinati, in grande sintonia con i Genovesi alle finestre, insensibili al fragore delle pale degli elicotteri, non perturbati da alcune provocazioni che la polizia non cessa di operare.

Battere di mani, ritrovarsi, SMS scambiati sui cellulari intasati, grande sete, ma anche compattezza, unitè, allegra contaminazione tra generazioni, come da tempo non ricordavo.
E al raccordo autostradale di Nervi un risalire tranquillo sui pullman, con la spunta dei nomi, l’aiuto della Polizia Stradale molto disponibile, la cronaca di Radio Popolare che avverte dell’insistere degli attacchi nella zona di Marassi, la soddisfazione dei familiari che riprendono notizia di quelli rimasti nella parte di testa del corteo, sottoposta ancora da quanto si apprende a cariche e incursioni.

Di fatto sono state le mazze e le provocazioni dei black block, che abbiamo visto solo a tratti come corpi totalmente estranei, ma, soprattutto, i fumogeni ed i manganelli della polizia che hanno assediato il corteo, senza riuscire nè a scioglierlo nè a farlo desistere dall’essere corteo intatto e visibile anche quando è stato costretto a ritornare sui suoi passi e a non raggiungere la meta prevista.

E’ come se l’identitè dei manifestanti fosse sul campo percepita come necessitè superiore alle difficoltè, alla violenza subita, alla paura ingenerata; piè importante delle stesse diverse anime che confluivano su quel lungomare.

Qualcosa del genere si è ripetuto, naturalmente con altre modalitè, a Perugia, a segnalare come l’identitè di questo movimento in formazione sia vista come un traguardo al di sopra delle provenienze e appartenenze. Buon segno e cosa del tutto nuova.

2. Manhattan

Non è compito di queste riflessioni una analisi della trasformazione che i fatti dell’11 Settembre porteranno in termini profondi all’evoluzione della convivenza e allo sconvolgimento del piano economico culturale, politico e perfino tecnologico che ha caratterizzato la conclusione del “secolo breve”.

Qui perè mi interessa portare alla luce la relazione tra la pace come orizzonte di un movimento per la globalizzazione dei diritti e l’esito della lotta al terrorismo.
Una lotta che, cosè come è impostata, potrebbe avere come suo presupposto la sicurezza di una parte sola – la piè ricca – della societè e la restrizione degli spazi democratici in tutto il mondo proprio quando si andava profilando una possibilitè di globalizzazione dal basso e di consolidamento delle reti di societè civile, fino al collegamento del mondo della produzione e del consumo sotto la lente inedita della valorizzazione sociale del lavoro.

E’ importante tener conto di come, dopo Genova, la sostanza della marcia Perugia Assisi sarebbe stata contro la guerra, anche senza Manhattan e senza i bombardamenti su Kabul.

Ma cosa puè comportare dopo il crollo delle Torri Gemelle e la deflagrazione del terrorismo la prima guerra del XXI secolo per la crescita di un movimento che si oppone al liberismo su scala planetaria?

Mi limito a poche osservazioni per punti.

. La disumanizzazione delle vittime nelle menti degli aggressori è tipica del terrorismo: tuttavia ogni volta che esso è esploso non ci siamo limitati a combatterlo sul terreno militare, ma ci siamo spinti a isolarne le ragioni piè insidiose ai fini del suo radicamento o per il successo della sua strategia.
Come allora non renderci conto che individuare uno spartiacque nella civilizzazione o nelle differenze di cultura significa dare irreversibilitè all’azione terroristica e portare il mondo verso uno scontro di violenza mai vista? Al movimento di Seattle, di Porto Alegre, di Genova tocca ora di crescere anche in Africa, nell’Islam, in Asia per non rimanere monco in una posizione solo di interdizione e di testimonianza.

. Chi è cresciuto in una cultura democratica, cerca possibilitè di cambiamento attraverso mezzi pacifici e l’affidamento delle soluzioni anche alle popolazioni e alla societè civile.
La guerra espropria questi soggetti ed anzi ne giustifica la marginalizzazione, cooptandoli nel proprio progetto finale o colpendoli se dovessero resistere.
Con la guerra si è venuta a creare una situazione pericolosa, perchè, sebbene il movimento si fosse mostrato capace di interrompere il cambiamento di marcia che il nuovo capitalismo voleva imporgli, nondimeno non sarebbe in grado di frenare, sotto la costrizione delle armi, il consolidamento del potere costituente della globalizzazione imposta dall’Occidente capitalistico.
La pace è un punto dirimente perchè, questa volta, ha a che fare direttamente con il rapporto col mondo, non solo con le relazioni tra nazioni, popoli, blocchi di alleanze.

Di fronte alla catastrofe occorre assumere davvero come linea politica la salvezza del mondo e non solo la sicurezza dell’Occidente. Anzi, occorre chiarire che la prima linea comprende anche la seconda e che invece non vale il viceversa.
In sostanza, il vero concetto simmetrico a quello del rischio globale è, per dirla con Raniero La Valle, quello di una sicurezza sociale globale, garantita da una sfera pubblica internazionale che assicura diritti universali ad un mondo riconosciuto nella sua unitè, unicitè, indivisibilitè
.
. Non siamo alla fine della storia e nemmeno al capolinea di uno scontro tra civiltè. Molti scontri invece si svolgono all’interno delle singole civiltè ed hanno motivazioni sociali e politiche che sono state ampiamente considerate nell’elaborazione del movimento “no global” e dalla revisione critica di molti dei principi guida dell’Occidente, compresi il consumo di massa distruttivo, la tolleranza verso la criminalitè organizzata e le truffe finanziarie.
Ogni civiltè è pluralista, divisa da antitesi e interessi contrapposti, mentre ci si vorrebbe far credere che la civiltè è identificabile con una dottrina economica, con la forza.
Ma in tal modo si sposta l’ottica dello sfruttamento dal sistema produttivo capitalista a quello tra nazioni, tra Occidente e Islam, dando l’impressione di societè omogenee in lotta su principi culturalmente inconciliabili e divaricate esclusivamente dal tema della modernizzazione. Il conflitto sociale non avrebbe ragione e, senza di esso, le prospettive di giustizia sociale sarebbero consegnate all’economia.

. Nelle crisi è facile ricorrere a semplificazioni. Sono molti, da Panebianco a Galli Della Loggia, che vorrebbero ridurre il cristianesimo all’Occidente e censurare l’atteggiamento critico dei cristiani verso la guerra. Si capisce la loro irritazione, dato che, dopo l’11 Settembre, vorrebbero che l’Amministrazione Americana incassasse un consenso pieno alla linea mistificatoria dei due tempi: prima l’impiego della forza che distrugge il male, poi la pace.
Questa volta ho l’impressione che l’avallo o meno a questa strategia passi anche dal ruolo politico che si riserveranno i cristiani.
La loro presenza nella societè e nei movimenti è oggi, almeno sul piano internazionale, piè libera e piè aperta alla contaminazione e meno compromessa con il potere che guida la globalizzazione in atto. E’ interessante tenere aperta questa reciprocitè e registrare anche da sinistra un procedere non scontato su un percorso di avvicinamento tutto da sperimentare in corso d’opera.
I social forum locali, il rapporto con il sindacato, le reti di discussione e di elaborazione tematiche registrano novitè interessanti in questa direzione.

3 Perugia

Con la marcia Perugia Assisi del 2001 è definitivamente manifesta una specificitè generazionale. Emerge ormai una nuova generazione la cui pratica politica si ispira ad un mondo unico.
Un mondo non solo idealizzato e proiettato nel futuro, se le parole d’ordine della giornata del 14 ottobre sono potute essere “acqua, lavoro, cibo, pace”.

E’ di enorme interesse il ritorno alla ribalta della questione lavoro e l’attenzione che si manifesta per i diritti sociali, di cui la pace è garanzia. Che i giovani sentano nel loro orizzonte la presenza ineliminabile dei diritti che provengono dal basso e dal lavoro in particolare è un’autentica novitè. Molto lo si deve alla discussione che è passata da Seattle, Porto Alegre e Genova ed alla riflessione che si è sviluppata, con il coinvolgimento anche dei sindacati, attorno al nuovo ciclo globale della produzione e del consumo.
Non siamo piè, come in passato, di fronte allo scambio su scala mondiale di merci e prodotti finiti, ciascuno appartenente ad un paese-nazione.
Oggi le sequenze della produzione si articolano nello spazio di tutto il pianeta, senza discontinuitè temporale da luogo a luogo.
La razionalitè economica che governa la produzione mette la lavoro contemporaneamente persone con diversi salari, diverse normative, diversi sindacati, che perè comunicano tra di loro attraverso il processo produttivo e non piè solo, come accadeva in passato, attraverso le istituzioni che governano il commercio dei prodotti di loro pertinenza.
Cosè i diritti dei lavoratori sono messi in relazione interna diretta e vengono portati, nella loro diversitè, all’attenzione dei consumatori.
La saldatura fra produzione e consumo ricrea condizioni vantaggiose per la conquista e la generalizzazione dei diritti, almeno quanto l’espansione industriale secondo il modello fordista .aveva prodotto su scala nazionale.

Una generazione che comincia a battersi su scala planetaria contro la povertè, per l’alimentazione, l’istruzione, la salute, si rende conto che i conflitti passano dal lavoro e ne riscopre il valore sociale progressivo.
Non sarè facile senza forti alleanze ed un consenso allargato tenere su un versante cosè realisticamente in collisione con la materialitè degli interessi economici e con l’essenza stessa del liberismo.
Se questo movimento saprè essere non solo presbite – proiettato cioè solo verso i grandi orizzonti – ma anche minutamente concreto, scoprirè il rapporto con il sindacato e contribuirè a rinnovarlo e rivitalizzarlo

In fondo a Genova e ancor piè a Perugia ci si accorgeva che tra i giovani qualcosa sta cambiando e che l’inquietudine nuova che li percorre sarè resa ancora piè aspra dalla guerra in corso e piè acuta dalla inumanitè del terrorismo che ha colpito l’11 settembre.
Il binomio guerra terrorismo, contrariamente alla maggioranza dei loro padri, li spinge a cercare risposte politiche e non militari e ad elaborare proposte prima di abbandonarsi alla retorica dei luoghi comuni o all’enfasi di alcune derive ideologiche, che nei tempi piè recenti sono state prevalentemente di matrice moderata.
A Perugia, rispetto a Genova, la violenza non ha oscurato nulla ed è parsa evidente la necessitè di un progetto nuovo, rispetto cui la politica attuale è a corto di argomenti e di strumenti.
Forse per questa nuova generazione il crollo delle Twin Towers, che Rafael Alberti in una sconvolgente poesia aveva anticipato nell’82 come “una baraonda di finestre chiuse, di vetri, di pezzi di plastica, di vinte e piegate strutture”, non costituirè l’evento al di lè del quale “non ci sarè piè sopra nè sotto”.