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Generale

Il 1° maggio di operai, infermieri e anziani

Primo maggio 2020

Per frequentazioni passate e per la mia età attuale, ho consapevolezza della drammatica solitudine entro la quale due categorie di uomini e donne – operai ed infermieri da una parte, anziani dall’altra – sono state falcidiate dal coronavirus e trattate come numeri senza volto, senza neppure il riconoscimento di un cordoglio sociale. Credo che quei decessi strazianti – pur così insolitamente numerosi – siano stati semplicemente inscritti nel contesto della morte inaspettata, la morte improvvisa, così invisa ai secoli passati e così “normale” nella società industriale globalizzata, che non ha intenzione di fare passi indietro anche di fronte alla pandemia. A loro voglio dedicare questo Primo Maggio, pensando che nel ricordo di questo terribile 2020 rimarranno come una ferita aperta.

Credo che nei confronti di una vicenda come la loro, disperata, isolata e politicamente non rappresentata, sia cresciuto non tanto un impulso di dolorosa accettazione, quanto un sentimento generale di gratitudine per il sacrificio sconsiderato cui li ha esposti un sistema inadeguato e colpevolmente impreparato all’emergenza. A ben guardare, l’orgoglio e la rabbia contrastanti con cui quelle persone hanno affrontato una prova insopprimibile nella memoria dell’intera collettività, sono sintomo di una contraddizione che nel tempo non potrà che accentuarsi. Da una parte c’è l’ammissione di chi riconosce nei comportamenti volontariamente responsabili inusitata generosità, straordinaria disponibilità professionale o, nel peggiore dei casi, fatale e ordinata rassegnazione al dovere e al bisogno: nella convinzione però – e a patto che – una volta contati i decessi tutto torni come prima. Dall’altra, c’è invece la riscoperta di chi fa proprio il substrato valoriale e culturale del sistema sanitario come era stato concepito dalla riforma negli anni ’70 (e non a caso sotto la spinta dei lavoratori), riportando al centro la missione di servizio solidaristico verso la forma più acuta di debolezza sociale, quella della malattia. Una contraddizione che si divaricherà ancor di più, se si tiene conto del quadro politico sociale ed economico in cui si dibatterà la crisi e la recessione futura e delle soluzioni da prendere sul fronte di tutte le emergenze in avvicinamento a livello planetario.

In base a queste considerazioni, penso che non si possa prescindere dal concreto degli operai, del personale sanitario e degli anziani nel riprogettare il “dopo”, purché la loro rivendicazione di giustizia, da vittime incolpevoli ed inconsapevoli di una allarmante scissione tra economia e vita, sia suffragata da una partecipazione e da un livello di coscienza generale che accetti l’abbandono di una pregiudiziale antropocentrica nei rapporti sociali e con la natura. Forse non abbiamo ancora preso abbastanza le misure della portata e dell’origine della crisi sanitaria e del perché si danno ovunque dati sottostimati: mai il conflitto tra economia e vita era apparso così immanente e tantomeno la conferma delle cause antropiche della mutazione ecologica ci aveva convinto a non rimbalzare più alla cieca da un’emergenza all’altra, trattandole separatamente.

L’onnipresenza di un minuscolo virus ha generato nel pensiero della gente comune la percezione che tutto è interconnesso: veniamo tutti – dalle monete che teniamo in tasca, al cuore che ci pulsa in petto, al cervello che coordina le nostre azioni, all’albero che ci dà ombra, alla cellula entro cui si annida un virus – dalla medesima “polvere di stelle”, che si è formata, riorganizzata ed evoluta in una “cosmogenesi” permanente, che dura da 14 miliardi di anni Siamo totalmente interdipendenti, in un inestricabile intreccio tra la luce, l’acqua, l’atmosfera, i batteri, i virus, gli uccelli, gli umani. L’intero vivente cioè, possiede un’unica storia comune, un medesimo alfabeto genetico di base e gli elementi che popolano l’immenso universo non sono differenti da quelli che modelliamo o trasformiamo in prodotti con energia e lavoro, o con cui giocano i nostri figli, o che consentono di sfrecciare affannosamente sulle strade. Se l’Universo ha una storia comune, come afferma anche Francesco nella sua Enciclica, il genere umano – che ne è l’osservatore cosciente a distanza di miliardi di anni – deve assumersi la responsabilità di farla continuare o cessare, almeno per quanto riguarda la propria specie, ultima arrivata, ma inscindibilmente interconnessa alla biosfera. Questa decisione, da far convivere con la giustizia sociale, sarà inevitabilmente l’idea di fondo di una rifondazione della politica e di un nuovo “contratto” di democrazia sociale che travalica i confini delle nazioni.

Il Covid-19 in Lombardia l’hanno pagato, più di ogni altro, gli addetti alla manifattura sparpagliati in innumerevoli fabbrichette, gli operatori della sanità lasciati senza protezione nelle case di cura e negli ospedali ed i pensionati tolti dalle loro case per affidarli alle cure di istituti privati. Se si mappa la diffusione del virus, si può constatare che la salute sul posto di lavoro e la salubrità dell’aria risultano particolarmente compromessi dove il sistema di produzione “just in time” ha trasformato interi territori periferici in fabbrica diffusa e il traffico delle merci sulle strade in una sorgente di emissioni che hanno fatto da formidabile veicolo di trasmissione di malattie polmonari e cardiocircolatorie. In effetti, è più facile prendere il virus gomito a gomito nei capannoni dell’indotto brianzolo, che nelle catene di montaggio finale della Baviera, dove le barriere tra gli addetti sono costituite dai robot progettualmente “distanziati”. Sotto il primato dell’impresa anche gli ospedali di “eccellenza” e le strutture deputate alla tutela della salute e alla cura nella Regione prealpina sono stati ridefiniti sul modello aziendale, con l’azzeramento delle scorte e dei magazzini, il taglio di letti nelle terapie intensive, la chiusura di presidi territoriali. Non può allora stupire nemmeno la carenza di mascherine, di tute protettive, di formazione adeguata all’emergenza per il personale. Tenderei ad affermare che la mancanza di cura, così in evidenza nelle emergenze che stiamo affrontando, si rivela la cifra con cui la tecnocrazia ha intrinsecamente minato il diritto ad una vita sana e depredato la biosfera, nella presunzione inconfessabile che sul Pianeta non ci sia posto per tutti. Il respingimento dei migranti parte anche da qui.

Tuttavia, questa torsione liberista deve fare i conti coi suoi effetti estremi e meno sopportabili. Il timore di perdere la propria e l’altrui incolumità, ha riportato in discussione la funzione degli stati, della politica e dell’economia capitalistica e sta facendo nascere la coscienza di una singolarità insopprimibile e armoniosa del Pianeta che abitiamo, così speciale perché i raggi del Sole attraversano una sottile atmosfera che lo circonda e lo scambio tra radiazione e materia alimenta l’intero vivente. Una coscienza, certo, da far propria ed approfondire, ma ormai in grado di richiamare all’ordine del giorno altre emergenze più dilatate nel tempo, come la minaccia alla vita sulla terra causata non solo dal caos climatico, ma anche dall’estinzione di massa delle specie e dal possesso dell’arma nucleare, tutte collegate alle scelte politiche di chi oggi governa, abita e sfrutta la Terra.

Ha ragione Guido Viale a ripetere che la crisi non potrà essere risolta reiterando le produzioni e i consumi che ci hanno portato al punto attuale. Anzi, si tratterebbe di un enorme spreco di danaro e beni comuni solo per dare continuità a malfermi assetti economici e di potere, gettando in un abisso senza fondo risorse a danno di lavoro dignitoso, salubrità e benessere e senza uscire dall’incubo della recessione.

Potremmo allora chiederci, ciascuno dove è e con la propria esperienza: quali sono le attività sospese che non devono ricominciare più? Quali si dovrebbero sviluppare e quali attività sostitutive dovrebbero prendere corpo? In quali progetti e settori si potrebbe creare occupazione stabile andando incontro alle emergenze sociali e ambientali, esse stesse all’origine di conflitti combattuti con armi sofisticate, concepite per far terra bruciata delle basi indispensabili alla riproduzione in intere regioni del mondo? Seguendo uno schema che si articola per filiere ed aree da riqualificare, lo spostamento di occupazione dai settori “non indispensabili” alla sanità sul territorio apparirebbe, da subito un primo concreto obbiettivo di lotta. Molte ed altre sono le risposte che si possono ragionevolmente pianificare, stimolando la creatività e l’intelligenza di quanti nell’economia attuale non si sentono rappresentati come persone responsabili del futuro loro e delle generazioni a venire. Se raccogliessimo un ampio questionario per programmare una società in salute dovremmo optare per scale territoriali, basate su comunità locali auto sostenibili, sulla proprietà pubblica dei beni comuni, su imprese sociali, su servizi collettivi, su un ruolo dello Stato e dei servizi sociali vincolato a principi giuridici da estendere su scala internazionale. Altro che tutto come prima!

Infine, non dobbiamo dimenticare che la crisi ecologica e climatica è per la prima volta una crisi causata dalla sovrapproduzione. Se il mondo del lavoro non si facesse carico di una contraddizione che lo riguarda, il passaggio da forze produttive a forze distruttive, già da tempo in atto, sarebbe ancora più marcato. Lo sviluppo capitalistico, infatti, è stato sempre caratterizzato, in particolare nei paesi industrializzati del Nord del pianeta, come “distruzione creativa”, che scaricava una gran parte della devastazione sulle società meno sviluppate e sulla natura. Ma oggi siamo arrivati ad un limite non più valicabile. La spinta “verde” al controllo dei consumi, alla sobrietà, ad un Green New Deal, questa volta non deriva, come nella crisi del petrolio del 1973, dal venir meno del flusso di un combustibile allora insostituibile, ma viene da una riflessione critica sull’eccesso di capacità trasformativa del lavoro globalizzato. Se l’esperienza verde tedesca e quella originale di Alexander Langer hanno colto il legame con la pace e con l’armonia naturale; se si è affermata una nozione di entropia che ha messo in crisi l’economia della crescita illimitata; se l’atomica di Hiroshima e la fusione del reattore di Chernobyl hanno denunciato i limiti della capacità di controllo umano delle tecnologie; se il successo al referendum sull’acqua ha rafforzato la valorizzazione dei beni comuni; se gli incendi e la fusione dei ghiacci di questi mesi definiscono le aree da cui si è costretti a migrare, allora, in questo Primo Maggio, potremmo chiederci a che punto stia la prospettiva dell’ecologia integrale fondata sulla giustizia sociale, ovvero, quell’alleanza rosso-verde che la politica non ha mai saputo rendere vincente. Molte cose, le abbiamo già imparate e, impercettibilmente, fanno parte di un bagaglio consolidato, da non sprecare, soprattutto ora, quando il frangente drammatico dell’epidemia da Covid-19 evidenzia nella malattia e nella mancanza di cura una contraddizione sociale che il sistema non ha voluto sanare. Oserei dire che qui ed ora sono davvero in gioco tante acquisizioni di un passato nemmeno più tanto recente, indispensabili per non soccombere. Ad esse si somma l’urgenza di cominciare da subito a dedicare alla cura di tutto il vivente gran parte del tempo destinato erroneamente ad una espansione delle forze produttive, tesa alla massimizzazione del profitto e caratterizzata dalle disuguaglianze più acute del dopoguerra.

Il lavoro, i suoi diritti, l’occupazione da non surrogare con tecnologie che bruciano fossili, l’orario ridotto, le ore retribuite dedicate allo studio e alla cura, fanno parte di un “conflitto dolce” che, impara dai movimenti, diffonde suggestioni all’interno e all’esterno come fossero spunti da coltivare e che emergono per ora solo come tanti fili d’erba in un prato mal concimato. E’ il momento per fondere germi di formidabili alleanze. Dobbiamo sapere che occorre guardarci da un attacco preventivo alla libertà di organizzarci e di lottare nella crisi, impedendoci di attraversare e vivere lo spazio pubblico, magari con la pretestuosità di motivazioni sanitarie. Ci sono soggetti antichi da recuperare ed altri nuovi con cui camminare: oggi, non domani, come danno a vedere gli studenti di Fridayforfuture e come emerge dall’insistenza di Francesco di uscire dal recinto religioso per abbandonare e superare un sistema tanto più insidioso quanto più disposto a proseguire sulla sua strada.