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Forum Sociale Mondiale

Il cambiamento in America Latina è già cominciato. A Belem cinque presidenti si riconoscono nel FSM

Mario Agostinelli

Il 29 Gennaio sarà ricordato a lungo, non solo in America Latina. Ne sono certo, anche se i media italiani non guardano da questa parte del mondo, non ne colgono le immense potenzialità, non capiscono che un pensiero nuovo – quello che consentirebbe una narrazione diversa del presente e del futuro – qui ha basi popolari irreversibili e implicazioni istituzionali che fino a un lustro fa erano inimmaginabili. E’ un sommovimento consapevole, fiducioso, creativo, partecipato, allegro, che valuta la crisi internazionale come una opportunità per un altro mondo possibile. E’ il prodotto di un insediamento profondo, maturato attraverso un decennio, delle intuizioni del Forum Sociale Mondiale in gran parte dei territori e delle culture del continente andino, che riconcilia indigeni, mondo del lavoro, ispirazioni religiose, idee marxiste, rivendicazioni ambientaliste e di genere, in uno spazio di valorizzazione della natura e di predomino della vita sulla produzione, che la Sinistra in Europa non ha saputo far emergere. Ed era ben visibile all’Hangar di Belem, di fronte a 50mila presenti inchiodati per tre ore, nel convinto omaggio al Forum da parte di Lula, Correa, Lugo, Chavez e  Morales e nella orgogliosa rivendicazione di autentiche rivoluzioni già in corso nelle costituzioni di Venezuela, Ecuador e Bolivia. Bastava vedere sul palco un presidente ex tornitore metalmeccanico, un presidente economista dei beni comuni che ha varato una costituzione che  garantisce “senza alcuna discriminazione, il diritto all’educazione, la salute, l’alimentazione, la sicurezza sociale e l’acqua», un presidente vescovo della teologia della liberazione e due presidenti indios, affermare di essere esattamente il risultato del processo innescato nel continente dai Forum Sociali, per capire a quale svolta stiamo assistendo. E’ vero che tra movimento e istituzioni è aperta una partita di reciproca indipendenza, che rimarca tuttora grandi divergenze e non mette al riparo nemmeno da possibili strumentalizzazioni da parte del potere: ma un cortocircuito palpabile tra democrazia diretta e democrazia delegata porta qui allo stesso entusiasmo che io provavo quando, negli anni ’70, dai consigli di fabbrica, dai consigli di zona e dai quartieri si provava a risalire alle assemblee rappresentative e a vivere la politica come parte attiva di un percorso di giustizia e trasformazione. E’ su queste basi che mi sento di riferire in questo diario una valutazione di fondo sorprendentemente positiva, prima di tutte le critiche e le reticenze che si potrebbero avanzare, ma che vengono dopo e, anzi, proprio perché il dato di fondo è così lusinghiero si possono collocare come un contributo di arricchimento.

“Siete l’oceano del futuro” ha detto con la consueta retorica Hugo Chavez; “non pagheranno la crisi i poveri” ha tuonato da consumato sindacalista Lula; “la nostra madre, Madre Naturaleza, è malata” ha con tristezza ammesso Evo Morales; “occorre passare dal PIL all’indice di redistribuzione della ricchezza” ha sostenuto un puntiglioso Correa; “il FSM è nostro ispiratore ed è un fuoco nuovo che arde” ha predicato Lugo: ma a nessuno sono sembrate parole fuori misura. Tutti  hanno invece comprensibilmente irriso a Berlusconi, a Sarkozy e a Bush, chiamati in causa perché, dopo aver provocato la malattia e aver cercato di rianimare i ricchi con i salassi dal sud del mondo, oggi vorrebbero ancora riproporre la ricetta liberista per uscire dalla crisi. Una uscita che i cinque intendono percorrere insieme, contando anche sulle due presidenti donna di Argentina e Cile e rivendicando “conjunctos” una leadership mondiale in un mondo multipolare in cui Obama rappresenta, nelle speranze espresse con una forte emozione e accompagnate da applausi, il lato afroamericano che il Brasile progressista ha da sempre inciso nelle sue lotte sociali.

Non mancano certo divergenze e contrasti, ma sembrano in sottordine rispetto ad una risposta alla crisi finanziaria economica sociale ambientale e etica attraverso la costruzione di una cooperazione sudamericana in nome della lotta alla disoccupazione, della preservazione della natura, della valorizzazione dei beni comuni, della giustizia sociale e della multiculturalità. Le rimostranze di Lugo nei confronti di Lula per la diga di Itaipù in territorio paraguanense, quelle di Lula nei confronti di Morales per  l’estromissione degli interessi brasiliani nella nazionalizzazione del petrolio boliviano, le differenti posizioni sui diritti della terra e dei contadini di fronte all’agrobusiness, sono finiti in secondo piano rispetto al cambio epocale evocato da tutti. Potrei dire che la biosfera ha preso il posto della geopolitica nelle relazioni tra questi presidenti in nome dei loro popoli. E’ un messaggio che non possiamo trascurare, perché l’America Latina si è data l’ambizione, per la prima volta, di puntare ad un cambiamento che interessa anche il Nord del mondo.

La base politica condivisa è in un socialismo nuovo, il socialismo del XXI secolo, che, a differenza del socialismo del passato, poggia profondamente sulla partecipazione, su un ribaltamento della crescita a favore della qualità delle relazioni tra uomini, tra generi, con la natura. E  riguarda una funzione dello stato né puramente redistributiva né eminentemente impositiva. E’ toccato a Chavez dire che c’è bisogno di un socialismo profondamente democratico, creativo, pienamente egualitario verso gli indigeni, femminista. Morales ha evocato i tempi di una campagna per la dignità nella diversità culturale, sotto il simbolo della foglia di coca come alimento per le popolazioni indigene, anzichè come droga contrabbandata per  gli occidentali. Correa ha individuato nei municipi il nucleo di un percorso alternativo partecipato, mentre Lugo sosteneva che il FSM ha unito l’altro mondo e Lula ammoniva come esso nasca da chi ha resistito alla tortura e all’oppressione militare.

Se Davos chiede il soccorso statale per salvare il capitalismo da se

stesso, Belem chiede “politiche pubbliche per salvare l’umanità dalla demenza neoliberista”. Niente meglio di questo slogan del Forum Sociale Mondiale,

potrebbe sintetizzare lo stato dell’arte del dibattito e dello scontro

in questa fase storica. Ma se a Davos il pessimismo è grande, qui, al di là della “metafisica” dei Forum, si è riscoperto un canale per rianimare la politica attraverso l’organizzazione della domanda sociale. Se ne è accorto perfino il Corriere Economia, che ieri in un articolo di Rocco Cotroneo dal titolo “Se il “ricco” Lula torna tra i no global” ammette che a Belem si è presentata un’occasione ghiotta e si è materializzata una prospettiva concreta per le idee guida degli antagonisti di Davos. Anche se in Italia se ne sta parlando poco, quel che sta succedendo allo sbocco  del Rio della Amazzoni nell’Atlantico può rischiarare le depressioni nostrane con uno spiraglio di speranza.