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In ricordo di Bruno Trentin

Mario Agostinelli

Per la mia generazione impegnata sindacalmente Bruno Trentin ha rappresentato la pienezza: ascolto intenso, ricerca incessante, curiosità e profondità culturale, rigore rivendicativo, innovazione unita alla partecipazione, ostilità all’opportunismo e all’involuzione burocratica degli apparati. Ma, soprattutto, in lui il movimento operaio ha trovato quella ragione di cittadinanza e quella certezza di indispensabilità per il compiersi della democrazia nel nostro Paese, che ha inserito le  lotte e i movimenti esplosi nel ’68 e nel ’69 in un alveo propositivo di battaglia civile di massa e popolare. Un processo forse irripetibile, che ha messo la capacità di mobilitazione di fabbriche ed uffici alle spalle di una stagione di riforme sociali – sanità, scuola, casa e territorio, pensioni – che nessun rigurgito successivo delle destre ha potuto cancellare. A lui l’Italia democratica deve molto: la contrattazione non solo della paga, ma delle condizioni di lavoro complessive come diritto; il riconoscimento dell’autonomia del punto di vista dei lavoratori rispetto all’impresa nell’organizzazione del processo produttivo; la rappresentanza diretta dei dipendenti, donne e uomini, nei conflitti sindacali, non mediata per forza dai partiti e nemmeno dall’iscrizione sindacale.

Ci sarà tempo per riflettere sullo straordinario contributo di un intellettuale folgorato prima dalla lotta partigiana e poi dalla corposità dei processi produttivi, dall’organizzazione del lavoro nella transizione dalla produzione in serie al postfordismo, dal conflitto aspro tra lavoro industriale e capitale che ha modernizzato l’Europa, producendo lo stato sociale più avanzato al mondo.

Io però, in un breve ricordo nel giorno dei suoi funerali, voglio riprendere alcuni suoi tratti indimenticabili non solo sul piano umano, ma anche su quello più esplicitamente politico.

Bruno era convinto che il diritto al lavoro fosse l’elemento imprescindibile di autogoverno di una società: il compito principale di qualsiasi democrazia, che non doveva farsi “regalare” nulla dal sistema di impresa, quanto piuttosto rivendicare diritti e piegare quel sistema all’obiettivo di una piena occupazione, da condividere come orizzonte di civiltà. Questo lo rendeva curioso rispetto a tutti i cambiamenti e convinto della necessità di contrattarli, proprio per impedire l’arbitrio dei più forti o la vittoria dell’economia sulla politica. Ne nasceva una enorme fiducia verso lavoratrici e lavoratori, capaci di un loro punto di vista interno al processo produttivo e, quindi, depositari di saperi, di valori, di solidarietà e di trasparenza (chissà come avrebbe reagito alle sciocchezze truci di Bossi e di Montezemolo sulla rivolta fiscale e quanto sarebbe stato severo con una sinistra che li teme fino a rincorrerli!). Lavoro come luogo di partecipazione e democrazia, occasione di cultura e formazione, cittadinanza attiva, in conflitto irrinunciabile con quelle forze che lo negano e, quindi, luogo prepolitico dove si formano ideali, programmi unitari, vincoli verso le forze politiche vere e proprie. Trentin era un nemico del pansidacalismo, ma nessun sindacato è stato soggetto politico quanto la FLM o la CGIL da lui dirette.

L’unità sindacale diventava così una bussola che non cercava le coordinate negli accordi tra i gruppi dirigenti. Era semplicemente la meta obbligata, dato che si partiva dalle condizioni comuni  nei reparti o negli uffici e si poteva contare sulle necessità rivendicative per far crescere una  società che diventa amica e coesa solo se non rimane estranea e sfruttatrice. Una società alla cui ricchezza e benessere si contribuisce tutti coscientemente e quotidianamente attraverso un lavoro non più alienato. Per questo l’orgoglio di appartenenza alla FIOM o alla CGIL in lui si è sempre stemperato con la consapevolezza di stare dentro una partita da giocare insieme, con il concorso di tutte le sigle sindacali e per un’unica prospettiva di liberazione. Credo non ci sia iscritto ad organizzazione sindacale che non abbia sentito “suo” Bruno Trentin.

La lucidità con cui ha attraversato da dirigente sindacale la ricostruzione, l’autunno caldo, il terrorismo, le modificazioni radicali seguite alle grandi fabbriche, è contraddistinta da grandi aperture alle culture che si affacciavano sulla scena mondiale e che non avevano radici in quelle del Novecento. Trentin non ha mai rinunciato al suo essere e proclamarsi innanzitutto antifascista ed uomo di punta del PCI e a rinvigorire la sua polemica con il nuovismo a sinistra e con il liberismo a destra, senza cristallizzazioni ideologiche, ma innovando e misurandosi a partire dalla sua solidissima coscienza democratica e sociale. Rigoroso nel confronto, lo contraddistingueva una mitezza insolita nella battaglia politica: per lui il dissenso era necessario e meritava una attenzione positiva, mentre l’avversario sconfitto non andava “fatto fuori” – come è stato purtroppo d’uso in molta della storia della sinistra politica e sindacale – ma recuperato all’azione unitaria.

Tra i molti ricordi positivi, direi affettuosi, ho di lui, l’uomo dei consigli di fabbrica, una reminiscenza vivissima a conclusione della vertenza Olivetti, una straordinaria lotta condotta a Crema con generosità e successo da tutta la città. Nell’ultima assemblea, nella sala mensa, tutti gli 846 dipendenti sono presenti e trovano conferma dal loro sindacato di avere un posto di lavoro sicuro, nonostante la messa  in liquidazione da parte di De Benedetti. A condivisione di un percorso vissuto insieme per oltre tre mesi, il capo del Consiglio si avvicina al tavolo degli oratori e, con stupore di tutti gli altri , mi consegna un salame di quelli per cui la bassa cremasca va famosa. Trentin non sa come avviarsi alle conclusioni, ma la delegata degli impiegati gli urla dal fondo: “sai, il nostro Consiglio di Fabbrica si spezza per colpa dei padroni, ma la nostra sapienza va oltre l’azienda e  il salame è stato insaccato da quelli dell’officina…” Quella sera Trentin, Gatti ed io tagliavamo fette sublimi con una vena di orgoglio e commozione, che si aggiravano sull’enorme borsa piena di documenti e sulla immancabile pipa che Bruno si portava ovunque andasse.

1 Commento

  1. Buongiorno Mario, sono rossana di golem Indispensabile. Ci terrei moltissimo ad avere un tuo pezzo dedicato a Bruno Trentin. Qui di persone di qualit� ne restano pochine…e serbarne la presenza sembra veramente necessario. Gi� te lo volevo scriver,e ma non trovo la tua e-mail! e ora trovo questo scritto sentito e affttuoso e so che sei la persona giusta. Se vuoi tornarci sopra, non so, fra qualche giorno, oppure potremmo riportarlo con con la menzione del tuo blog, questo testo. immagino che
    un caro saluto fammi sapere