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Ormai nella nostra esperienza abituale, il “tema del giorno” ci è imposto da una giostra mediatica che rimuove letteralmente la notizia del giorno prima  e che fa rimbalzare la nuova, appositamente predisposta nei palazzi del potere, giù giù per l’intera catena dell’informazione. Siamo ormai immersi in un presente disegnato al di fuori di noi e della nostra esperienza sociale, senza memoria e denso di paure per il futuro. Quello che è accaduto oggi e che avverrà domani ce lo dice la prima serata della televisione dai mille canali, spezzettata e ricomposta dal nostro zapping nervoso. La videocrazia – addirittura resa più cogente negli ultimi mesi –  spiega il favore che incontra ancor oggi il pensiero unico e il potere che esso rinnova sull’opinione pubblica, nonostante sia sua la responsabilità di una crisi per cui non sa trovare soluzioni convincenti. Ormai, basta ascoltare alla sera l’anticipazione dei titoli dei giornali del giorno successivo per accertarsi che la gerarchia delle nostre preoccupazioni – almeno per quanto indotto dai media – non sarà più necessariamente la stessa che ci tormentava il giorno prima, sostituita da scoop e da incessanti “svolte storiche ed eventi epocali” che spiazzano tutto quanto precedentemente veniva considerato tale. Notizie frutto di personalizzazione ostinata e per lo più confezionate all’esterno e al di sopra delle redazioni delle testate giornalistiche, tra di loro ormai intercambiabili e in comune e perenne dipendenza dal potere, alla faccia del pluralismo dell’informazione, sale della democrazia. Ma tant’è e, se si esclude la strenua alterità de Il Manifesto, rarissimi programmi di “televisione resistente” e la presunta e perversa originalità di alcuni servitori di Berlusconi come Belpietro e Feltri, dal conformismo dilagante possiamo facilmente capire perché ci si rammarichi di più per i languori della Fornero che per l’eroica esposizione alle intemperie dei lavoratori della Wagons Lits. E’ ormai quasi solo sui blog e sulla rete interattiva che si può modificare con un ascolto largo e convinto “l’ordine del giorno” imposto dai media tradizionali, mantenendo continuità di narrazione e una coerenza di critica, non schiacciandosi sul presente, ma gettando uno sguardo lungo sul futuro. Non rincorrendo, ma anticipando e stando sul pezzo che vale tutto il tempo che occorre, fino a che diventi epressione conflittuale e di massa negli appuntamenti delle grandi manifestazioni.

Così, ci avevano raccontato che la nostra maggiore preoccupazione avrebbe dovuto essere “lo spread” e che la politica doveva ridursi alla sintassi del “rating”, del “default”, del “downgrade”, l’astruso latinorum  che ha trapassato sguardi e orecchie degli Italiani quel tanto che bastava per dimostrare la loro impotenza di fronte alla dittatura della finanza. Poi, di colpo, l’esibizione ossessiva degli stessi grafici terrificanti che spiattellavano la misura della febbre del Paese di fronte a medici implacabili, si è dissolta, nella convinzione che saremmo passati con i tecnici al governo dal rango di esclusi a quello di codecisori nell’Europa che conta. Così, da quando la politica è apparentemente uscita di scena,  le apparizioni di Monti nella sala stampa della Commissione di Bruxelles sono state seguite con la stessa trepidazione con cui ci si era messi precedentemente in frustrante attesa del duettare di Merkel e Sarkozy sui teleschermi.

Ma la vita grama della gente in carne ed ossa, un anticipo della recessione temibilissima e disastrosa già in atto, non può a lungo essere rimossa e banalmente ricompresa nel racconto del miracolo di un ritorno alla crescita, scaturito da un riallineamento dei tassi di interesse del nostro debito pubblico. Eppure, ci stanno provando in tutti i modi a far dimenticare  le considerazioni di inizio settimana fornite dai centri di ricerca nazionali e internazionali sulle pessime condizioni di vita e di lavoro degli Italiani. Proprio per questo tocca a noi impedire che lo stillicidio di considerazioni negative  su occupazione e salari fornite dall’Istat, dal’Eurispes, dallo stesso FMI, venga semplicemente esorcizzato e sepolto da mistificazioni e da falsi problemi. Come risulta dalla pretesa della ministra del welfare di rilanciare – sotto dettatura di Monti – una promessa di occupazione al costo dell’abbattimento dei diritti del lavoro o dal disprezzo che trapela dal comportamento del Presidente del Consiglio verso i sindacati, che entrano in notizia solo per il tempo (perso?) che richiede una trattativa con loro.

E’ su quei dati crudi sulla vita reale che occorre riflettere ed è da essi che bisogna ripartire. Secondo l’Istat a Gennaio la fiducia dei consumatori resta stabile a 91,6, lo stesso livello gia’ registrato a Dicembre, che corrisponde al valore più basso dal 1996, ovvero dall’inizio delle serie storiche confrontabili. L’aspettativa che si superasse quota 92 è andata delusa. Scende al livello più basso dal 1996 anche l’indice che misura le previsioni a breve termine (da 82,5 a 78,4). In particolare, si deteriorano le aspettative sull’andamento generale dell’economia italiana (il saldo scende da -56 a -67) e segnano una forte crescita le aspettative di disoccupazione (da 87 a 97 il saldo delle risposte): in altre parole la percezione della popolazione è quella di un aumento della quota di persone in cerca disperato di lavoro.

Sul fronte delle retribuzioni contrattuali orarie, si registra la loro stasi a Dicembre su Novembre, mentre sono aumentate dell’1,4% su base annua: il valore tendenziale è il più basso dal marzo del 1999. Si allarga così la forbice tra l’aumento dei salari e il livello d’inflazione (+3,3%), arrivato a una differenza di 1,9 punti percentuali  (il massimo dall’agosto 1995). Nell’intero anno la differenza tra l’aumento delle retribuzioni contrattuali orarie (+1,8%) e il livello d’inflazione (+2,8%) raggiunge un divario pari a 1 punto percentuale, lo scarto più forte dal 1995. Intanto è notevolmente salita la media dei mesi di attesa per i lavoratori con il contratto scaduto. A dicembre 2011 l’attesa, infatti, supera la soglia dei due anni (24,9 mesi), in aumento rispetto allo stesso mese del 2010 (14,5 mesi). A dicembre 2011 risultano in attesa di rinnovo 30 accordi contrattuali, di cui 16 appartenenti alla pubblica amministrazione, relativi a 4,1 milioni di dipendenti (circa 3 milioni nel pubblico impiego). I dipendenti che aspettano il rinnovo sono quindi – sottolinea l’Istat – il 31,4%.! In definitiva, per il lavoro siamo tornati indietro di oltre quindici anni.

Per l’Eurispes coloro che pensano che il Paese abbia migliorato (poco o tanto) la propria economia, nel corso degli ultimi dodici mesi, sono solamente l’1,4%, un dato mai riscontrato così’ basso: erano il 3,7% dodici mesi fa, quasi il 6% nel 2010, il 7,4% nel 2004, per non parlare del 14,2% del 2007. I cittadini italiani non nascondono le preoccupazioni per il prossimo anno: solo il 6,1% pensa che la situazione economica migliorerà, a fronte di un 56,6% che pronostica un peggioramento, mentre il 26,9% si attende una condizione di stabilità. La sfiducia è quindi assolutamente disgiunta dall’ottimismo che negli ultimi giorni sparge a piene mani il Governo: un ottimismo non condiviso da Draghi e tantomeno da economisti di sinistra moderata come Fitoussi.

Per il FMI l’economia italiana sarà in recessione nel 2012 e 2013. Secondo le ultime stime, il Pil subirà un calo del 2,2% quest’anno e dello 0,6% il prossimo. Si tratta di un taglio di 2,5 punti percentuali per il 2012 e di 1,1 punti per il 2013 rispetto alle previsioni di Settembre scorso. Lo scenario globale del resto non è incoraggiante. “La ripresa mondiale è in stallo” ed è “minacciata dalle crescenti tensioni nell’area euro e da altre fragilità”, scrivono gli economisti del fondo monetario nella bozza del World Economic Outlook. Questo a fronte di una crescita del Pil mondiale del 3,3% nel 2012 e del 4% nel 2013. L’insieme di queste previsioni pessimistiche viene drammaticamente avvalorata proprio dai dati di Febbraio sulla crescita abnorme nell’intero nostro Paese – e non più solo al Sud – della disoccupazione giovanile.

Basterà allora ridurre la risposta ad una crisi dovuta ad uno scontro intercapitalistico di enormi dimensioni, un crescente e irreversibile indebitamento verso la natura, una divaricazione dei redditi inedita, una incolmabile scissione tra economia reale e circolazione finanziaria, alla riduzione della spesa pubblica e ad una trita e truce riedizione dello scontro tra capitale e lavoro simboleggiato penosamente dall’abolizione dell’articolo 18? Ci può forse credere una professoressa un po’ fanatica e travolta da una popolarità che mette alla prova la sua solidità ed un capo di governo autorevolissimo nel mondo finanziario, ma evidentemente a digiuno di conflitti sociali, a giudicare dalle gaffes sul lavoro dei giovani che lavoro non hanno.

Certo che voler abolire il potere ordinatorio della magistratura di rimuovere i licenziamenti illegittimi ,  significa negare lo strumento di prolungamento del potere sindacale al livello politico e, quindi, manifestare la volontà di prescindere dalla rappresentanza dei lavoratori nell’intraprendere la strada di una ripresa (crescita?!), ridotta, senza il loro consenso, a pura propaganda. Se poi si sceglie di indebolire il contratto nazionale (per il quale peraltro non è prevista alcuna votazione dei lavoratori) e di sbilanciarlo drasticamente rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale, aprendo largamente alle deroghe e chiedendo allo Stato che il fisco premi il livello aziendale, allora si ha un rovesciamento costituzionale, e cioè l’accettazione che lavoro e democrazia da fondamento a cui deve tendere a conformarsi la dimensione economica, divengono anche formalmente variabili dipendenti.

C’è poi tutto il fronte della politica industriale e della riconversione ecologica della produzione e dei consumi: in effetti, come si riprodurrà il capitalismo  senza la natura, dopo che si è andato a scontrare con un limite insuperabile di consumo e degrado di risorse?

In buona sostanza, parlare senza esercizi accademici di lavoro, welfare, diritti, ambiente, riesce più difficile che trattare della salita o della discesa di indici finanziari lasciati spesso alla valutazione di interessi privati, banche, gruppi di potere in conflitto di interesse. Credo perciò che non si deve stare al gioco e che il ritorno della politica vada davvero perseguito, con la lucidità di analisi, la concretezza e la gradualità che la gravità della situazione e il pericolo che corre la democrazia richiedono oggettivamente.

Dobbiamo provarci tutti a spostare l’asse della riflessione sulla crisi, sottraendolo al deficit di partecipazione che sembra invece parte imprescindibile della ricetta degli attuali governi europei.

In questa direzione occorre stabilire scambi e relazioni nelle nostre reti: segnalo qui, a puro titolo esemplificativo, che sto provando a mettere ogni giorno sul blog http://www.varesepolitica.it/agostinelli/ un grafico originale e rappresentativo, con pochissime considerazioni a commento per lasciarlo aperto ad una riflessione  che  proietti il presente sul futuro e aiuti a capire in quale direzione stiamo andando e verso quali approdi portiamo le future generazioni. Un invito a non essere miopi in un’era che mette a disposizione grandi mezzi di comunicazione e conoscenza e a non ridurci meramente a interpreti inconsapevoli e subalterni di parametri che sfuggono al nostro controllo e alla verifica della nostra esperienza personale e sociale. Il titolo scelto per il blog  riassume un po’ le considerazioni di sopra: “un grafico al giorno leva lo spread di torno”. Per metterla un po’ sul leggero, l’idea mi è venuta da una nota di Tonio Dell’Olio che si trovava a Napoli nei giorni di fine anno. I nomi dei botti di capodanno degli anni precedenti erano stati “la capata di Zidane” e, ancora prima, “il pallone di Maradona” e più recentemente “la bomba di Lavezzi”. Quest’anno era la volta de “O’ spréd”. Ho così pensato che l’esplosione improvvisa della finanza nelle famiglie degli Italiani andava contrastata con i botti delle nostre fatiche quotidiane e delle nostre speranze dure a morire.