REPOSITORY

Generale

L’arte politica anticostituzionale

Il golpe “renzusconiano” al servizio del sovversivismo antisociale delle classi dominanti

del Movimento Nazionale Antifascista difesa integrale e rilancio della Costituzione
a cura di Angelo Ruggeri e Mario Agostinelli

Il progetto di Renzi procede con l’attacco più organico finora sferrato nei confronti dei principi della democrazia sociale su cui poggia la nostra Costituzione. Uno stravolgimento irreversibile ove non respinto, che consiste nel coniugare definitivamente autoritarismo “sociale” dell’impresa e autoritarismo “politico” delle istituzioni, dopo aver delegittimato il conflitto e aver cancellato il diritto legittimo e fondamentale alla rappresentanza in sede istituzionale del pluralismo sociale. Soppressione dell’art.18, abolizione del senato elettivo, legge elettorale, costituiscono un unicum perpetrato con la stessa tattica con cui sono stati trafitti i Curiazi dall’Orazio rimasto solo in una arena vociante e forse anche allora attratta più dallo spettacolo che dalla posta in gioco.

La truffa elettorale, volta a introdurre il bipartitismo e il presidenzialismo-bipartitico, fa da suggello ad un tale depotenziamento della sovranità popolare da abolire definitivamente il principio “una testa un voto”. La sudditanza di forze politiche e sociali, governo e istituzioni, di fronte alle pretese delle forze imprenditoriali e del governo ha aperto una voragine nella democrazia, prima abrogando il proporzionale e scambiando per un rifiuto della democrazia lo sdegno dei cittadini per l’occupazione dello stato da parte dei partiti, poi scambiando i costi e i tempi della democrazia per uno spreco del denaro e della intelligenza dei cittadini, che – secondo la vulgata ideologica politologica e giornalistica – sarebbero tutti desiderosi di sapere il vincitore di una partita truccata la sera stessa di frettolose votazioni
Con la reiterazione di una legge elettorale che non è insensato accostare alla legge Acerbo del 1923, si vorrebbe chiudere la peculiarità del caso italiano, inaccettabile per il capitalismo finanziario del blocco storico” euro-atlantico”, sia per la differenza specifica della Costituzione del 1948, sia per la permanenza di una coscienza democratica di massa, ravvivata in forme significative anche in occasione del recente 25 aprile e del 70° della Liberazione dal nazifascismo.

Non è un caso che due giorni dopo la fiducia, l’agenzia di rating Fitch approvi l’Italicum perché “diminuisce la volatilità politica” e “fa progredire il paese verso le necessarie riforme strutturali e i cambiamenti macroeconomici che favoriscono la crescita”. Come dimenticare che da anni il mondo finanziario USA chiede una riduzione della democrazia e che Renzi ne ha fatto la sua bandiera?
Si elevano così ad arbitri gruppi di vertici di potere che si contrastano tra loro per obbiettivi di mera gestione dell’arena politica sfuggita al controllo sociale, in totale subalternità al poter economico e senza la necessaria capacità discriminante sul terreno economico-sociale. Non deve quindi meravigliare che l’attuale presidente del consiglio si sia recato alla Borsa di Milano proprio il giorno della fiducia in Parlamento sulla legge elettorale ipermaggioritaria.

Appiattendoci renzusconianamente, sulla “società che è cambiata”, il “mondo che è cambiato”, il “capitalismo che è cambiato”, si è asserita la fine di “tutto il 900”, abbandonando la lotta per la democrazia e convertendola in scalata alla stanza dei bottoni. Si è così arrivati alla rottura con la teoria della democrazia di massa della Costituzione, della Resistenza e dell’Antifascismo: quindi della democrazia economico-sociale fondata sul lavoro. Guardando avanti verso il futuro senza alcuna memoria si è perso anche quel nesso unitario e articolato tra tutti i valori che portano al centro lavoro, natura, ruolo e destino delle classi.
Non avendo il coraggio di uscire dal coro del minimalismo dell’azione “riformista”, non si è più voluto cogliere l’occasione per rafforzare la rivendicazione della legittimità storica della rivoluzione perseguita dal movimento operaio con le sue alleanze sociali, attraverso la individuazione delle contraddizioni che hanno pesato nelle esperienze di lotta sociale e politica per una transizione dal liberalismo/liberismo al socialismo, dal primato del privato all’interesse pubblico, in un conflitto dotato di regole quando avviene nella piena espressione del pluralismo sociale che lo contraddistingue come democratico, ancorché irriducibile.

Allo scopo di evitare che l’approfondimento del dibattito si configuri come “accantonamento” – con astrazione dalla critica della situazione sociale e politica in atto – prendiamo le mosse da una discussione che coinvolge non solo la denuncia degli obbiettivi del capitalismo privato e della strategia della destra politica, ma anche i limiti oggettivi e soggettivi di partiti e sindacati che, in qualche modo, tengono ancora rapporti con il movimento operaio. Facciamo cioè riferimento alla critica dei termini stessi in cui questi ultimi si autodefiniscono e attivano le loro piattaforme programmatiche, con più o meno disancoramento dalle tendenze teorico-politiche che in tutto il 900 hanno caratterizzato le lotte per la “democrazia sostanziale”, in nome dell’emancipazione e della modifica dei rapporti sociali e di produzione capitalistici.

Fare politica significa, come affermava Gramsci, fare e rifarsi alla storia e alla filosofia: così un capitale che vuole rifarsi alla storia di un passato da reiterare nella nuova e cangiante veste del corporativismo proprio del capitalismo finanziario, ha fretta di adeguare lo Stato con un’antiparlamentare forma di governo, per fronteggiare possibili insorgenze sociali e per poter proseguire nelle “politiche” ispirate alla linea “impoverire i ceti medi, tenere a bada i ceti poveri e i lavoratori”.
L’Italicum, volto ad imporre il presidenzialismo bipartitico per attuare una simbiosi (già in vigore) tra Stato e impresa, prefigura proprio un’antiparlamentare forma di stato e di governo, con cui si impone sia l’autoritarismo statale, sia, con la designazione degli eletti, la preminenza di fatto degli interessi delle imprese anche nello Stato.

Come avviene con l’introduzione dei sistemi maggioritari e uninominali che consentono – come si vede dalle discussioni tra forze politiche che si scontrano sull’una l’altra forma manomissoria – di “studiare” e introdurre sistemi che a proprio vantaggio falsifichino il voto e ingannino gli elettori. Portando alla crescita progressiva dell’astensionismo di un elettorato popolare che rifiuta di dare fiducia ad un sistema che svilisce il voto e che esclude dall’arena politico istituzionale una loro rappresentanza.
Cameron e Renzi esultano per affermazioni virtuali. Infatti anche il parlamento inglese viene distorto e frammentato dal sistema uninominale, mentre un sondaggio dice che il 63% degli inglesi vorrebbe passare al sistema proporzionale. La realtà è che non sono le regole la ragione prima che determini l’instabilità politica. Ė l’assenza di politica nella politica, la rinuncia dei politici alle idee; sono la standardizzazione, la corruzione, l’omologazione dei politici che portano forze apparentemente distanti a perseguire gli stessi disegni e gli stessi poteri, la prevaricazione del risultato elettorale sulle idee, che finiscono “naturalmente” per determinare situazioni di pari e patta, perché tutti vogliono vincere costi quel che costi e nessuno vuole perdere. Si tratta di pratiche elettorali che tendono a portare il risultato ad una situazione di equilibrio proprio perché i soggetti in gioco (i partiti) hanno come solo obiettivo quello di ottenere la maggioranza. Ma se tutti si adattano e trasformano, col tempo tutte le differenze si controbilanciano, purché si escludano i ceti popolari e sociali più bisognosi di cambiamento.

Tale loro esclusione si sancirà, in modo ancor più marcato e definitivo, con l’ennesima truffa di premi non di maggioranza ma dati ad una minoranza (come già la Legge Acerbo del 23), nell’occupazione di vertici di forze politiche che occupano posti di privilegio nel palazzo, escludendo dall’arena parlamentare chiunque confligga col sistema, tagliando fuori la classe operaia, i lavoratori e le forze popolari con il ritorno a forme politiche di rappresentanza non più anche sociale ma solo di “ceto politico”. Un ceto che si divide solo per la gestione delle ‘spoglie del potere’ (essendo vero potere solo quello del capitale economico e finanziario e avendo preventivamente tutti optato per i valori del mercato).
In uno stato confusionale di massa (in cui sindacati e sinistra annaspano), provocato e consolidato in un trentennio di progressivo avvelenamento del “cervello sociale” del Paese, si va verso la seconda Carta del Lavoro.
L’art.18 dello Statuto dei lavoratori è stato difeso come mero “diritto della persona umana” come se il lavoratore fosse un semplice cittadino della società civile, invece che un soggetto che subisce le forme repressive e del potere di classe dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Inoltre è stata imputata alla sua sola “modifica” l’effetto dirompente che era invece da ricollegare alle “riforme istituzionali e al “Libro Bianco”.

L’introduzione contemporanea e convergente di Leggi di c.d. “riforma” di revisione costituzionale e di abolizione dell’Art. 18 e dello Statuto dei lavoratori, nonché la legge elettorale, diventano così atti di un disegno convergente, volto, come abbiamo già dimostrato, a restaurare e coniugare tra loro l’autoritarismo “sociale” dell’impresa e l’autoritarismo “politico” delle istituzioni.
Addirittura, come “scopri” ed ebbe denunciare Salvatore d’Albergo, il dominio del governo sul Parlamento è stato inserito di soppiatto, (art.27 rigo 12 della “revisione”) assegnando al governo il potere di chiedere all’organo del “monocameralismo” cioè alla camera, di deliberare che “un disegno di legge, indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, sia iscritto con priorita’ all’O.d.g e sottoposto alla votazione finale entro 60 giorni dalla richiesta”, alterando già così la forma di governo parlamentare.

In chiusura, vogliamo riprendere la questione dell’abbandono del sistema elettorale “proporzionale” che è stato l’architrave di un processo di democratizzazione, la cui pregiudizialità, in linea di principio, è legata alla connessione tra pluralismo sociale e pluralismo politico ai fini dello sviluppo di una conflittualità non dominata dalla destra sociale e politica, e caratterizzata da un ruolo attivo delle organizzazioni del movimento operaio, sì da trasferire nelle assemblee elettive il peso della combattività espressa nei rapporti di lavoro.
Destra/sinistra, soprattutto oggi, costituiscono una diade che nasconde un appiattimento omologante. E la stessa discussione se in Italia vi sia una o più “sinistre”, contribuisce ad allontanare nel tempo la possibilità di una nuova presa di coscienza di massa. Presa di coscienza che può passare da un incardinamento dell’opposizione politica su una opposizione sociale che scavalchi la diade “parlamentaristica” destra/sinistra, proprio per fare delle istituzioni rappresentative un passaggio e non l’unico obiettivo, riattribuendo alla società civile il ruolo di formazione e impostazione degli indirizzi politici capaci di coniugarsi con lotte volte a trasformare i rapporti sociali e non a registrarli e mantenerli. Tanto più oggi che – ad onta della demonizzazione dei rapporti di classe negli stati nazionali – le trasformazioni in corso legittimano il rilancio dell’internazionalismo – da sempre bandiera del movimento operaio – come antitesi, resa più matura e potenziata, alla “globalizzazione” dei poteri finanziari, operata sia attraverso le istituzioni nazionali che europee, che sovranazionali.