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FEDERALISMO: UN RIPENSAMENTO?

Mario Agostinelli, il Manifesto, 8 novembre

Ho guardato con inaspettato favore allo stop di D’Alema e Fini al percorso catacombale del federalismo bossiano, blandito invece fin qui dal PD lombardo. La richiesta di attivazione del Parlamento dentro una discussione fin qui svolta senza coinvolgimento della rappresentanza sociale, sembra dire basta con un federalismo deciso a cena di cui nessuno sa davvero niente, ma che, stimolando la pancia elettorale del Nord separatista, favorisce l’assalto alla diligenza delle conquiste democratiche ed operaie del dopoguerra e, in particolare, delle riforme strappate con l’arrivo della democrazia di massa a seguito delle lotte del ‘68. In una fase di esplosione delle manifestazioni degli studenti e di ripresa del conflitto sociale, di crisi finanziaria che rimette in gioco un ruolo non residuale dello Stato, è bene uscire dalle cene di Arcore e dagli angusti ammiccamenti lombardi che guardano agli affari dell’Expo 2015, per analizzare gli effetti di quella che Berlusconi ha definito “la più grande riforma della vita pubblica italiana”, ma che poterebbe diventare in modo strisciante la più profonda trasformazione della democrazia sociale promossa dalla Costituzione. Con uno “speciale coinvolgimento del Parlamento al posto di una trattativa diretta tra Stato e enti locali” (D’Alema) potrebbe quindi riprendere fiato la politica e un suo ruolo nitido di rappresentanza di interessi in conflitto, anche se la mancanza in Parlamento delle forze più sensibili ai diritti sociali richiederà capacità di mobilitazione oggi sconosciuta.

Allora, cominciamo col dire che l’asse D’Alema Fini può servire da potente deterrente per riaprire una partita che a livello istituzionale volgeva al peggio. Tuttavia, una mossa ancora di palazzo, sfumata e ambigua nei contenuti, non può tranquillizzare nessuno, in assenza di protagonismo sociale e di una piena coscienza delle questioni sollevate da parte della società civile.

Perciò, mi sembra utile sottoporre a riflessione il risultato di un’importante e affollatissimo appuntamento pubblico tenuto a Milano dal gruppo regionale di Rifondazione Comunista. Un esito ancor più interessante perché prodotto nel cuore della cultura leghista, sulla scorta dell’esperienza fatta in Lombardia da RC contro il progetto di legge sul federalismo fiscale sostenuto qui in logica bipartisan da Lega, FI, AN e PD.

Un evento significativo anche dal punto di vista simbolico: nel centro di Milano, alla presenza di un attento Formigoni, hanno preso la parola il presidente della Puglia e il sindaco di Napoli, per ribadire che l’unità giuridica e economica della Repubblica prescinde dai confini territoriali e che è necessario l’aggancio tra sistema finanziario locale e le grandi scelte dello stato, sulla base – come hanno scritto recentemente Reichlin e Asor Rosa – non di un’idea retorica di nazione, ma di una proiezione unitaria dell’Italia europea e mediterranea nelle sfide inedite della globalizzazione. Vendola e Iervolino hanno potuto constatare, sulla scorta dei conti da noi forniti sulla proposta lombarda e su quella Calderoli, l’impossibilità di continuare ad assicurare i livelli essenziali di assistenza ai loro cittadini elettori e gli effetti nefasti di una redistribuzione a vantaggio dei ricchi a seguito dell’esaltazione di criteri come la “capacità fiscale territoriale” o i “costi standard” mutuati, chissà perché, dal modello Formigoni della Lombardia.

Importanti sono state le perplessità maturate anche dal presidente lombardo, con la constatazione che il regalo alla Lega sarebbe insostenibile perfino per chi sostiene il federalismo per spostare ulteriormente dal pubblico al privato la scuola e la sanità. Decisivo è risultato poi l’impegno della CGIL a spendersi per impedire una diversificazione a livello regionale del sistema del welfare e dei contratti.

La richiesta pregiudiziale uscita dal convegno è di non consegnare alla maggioranza governativa il percorso dei decreti attuativi previsti da Calderoli. Su questo l’iniziativa D’Alema-Fini giunge a fagiolo, ma non basta. E’ necessario che la critica risalga a monte, per smontare alcuni principi dati per irreversibili, che hanno la loro spinta culturale in un non contrastato ”vento del Nord”. Si è in fondo accettato che le collettività più ricche abbiano più diritti perché pagano più tributi, che le tasse siano di proprietà del territorio e che, attribuendo nei fatti la sovranità ai “popoli” federati anziché al popolo italiano, si pensi che il Nord subisca una redistribuzione verso il Sud a senso unico. Ci si dimentica così che non ci può essere frattura tra giustizia fiscale e giustizia sociale e che la Costituzione prevede e rende disponibili anche attraverso la progressività delle tasse diritti universali della persona, non diritti su base territoriale.

In fondo, più risorse trattenute dai territori ricchi corrisponde a meno soldi per beni pubblici generali, welfare, pensioni, interventi perequativi nella crisi. Ma, soprattutto, ad una riduzione al minimo dei livelli essenziali di assistenza (LEA) assicurati dal pubblico, con conseguente differenziazione di sanità, assistenza e istruzione a seconda della capacità fiscale delle Regioni e apertura al privato e alle forme corporative. Se questo fa gioco alla destra al governo – si pensi a Gelmini e Sacconi e alla insistenza dei loro disegni di legge sul rilancio di famiglia, mutue, fondazioni, enti bilaterali, rette e bonus, con passaggio dalla fiscalità generale al reddito privato – e all’attacco di Confindustria al sindacato – si pensi alle gabbie salariali, all’indebolimento del contratto nazionale e alla riduzione dei diritti dei precari – non si capisce il silenzio della sinistra.

Certamente, di fronte al disegno governativo, non bastano reazioni finora solo emendative, affidate per lo più agli amministratori locali riuniti nelle loro associazioni, preoccupati non del progetto generale, ma della perdita a valle di loro attuali prerogative. Ben sapendo che il favore al federalismo leghista proviene anche dalla non trasparenza dell’amministrazione statale di fronte ai cittadini e dalla constatazione di inefficienze e di improduttività della spesa non più sopportabili in tempi di crisi e di messa in discussione dei diritti universali, occorrono principi forti da rilanciare e obiettivi chiari da contrapporre, predisonendo un’agenda di “no, sì, al posto di” e non restando ai margini del processo o solo in difesa.

A cominciare subito dal rifiuto di un federalismo differenziato e dal portare la discussione generale e il regime transitorio che ne segue in capo al Parlamento. Per svuotare poi di effetti deleteri il principio di territorialità, pretendendo universalità dei LEA e una perequazione verticale per l’insieme dei diritti civili e sociali fondamentali. Per poi stabilire una verifica degli effetti dell’abbandono della spesa storica e per rilanciare contemporaneamente l’impegno dello stato sui beni comuni, sul diritto al lavoro, sulla lotta per il clima. Per finire ancora col contrasto alla sussidiarietà orizzontale, con il sostegno al federalismo municipale e con l’interpretazione delle sfide future del Paese in chiave di politiche industriali, economiche, finanziarie e sociali unitarie.

Bisogna però svegliarsi da un torpore che ci ha resi rinunciatari, se non addirittura timorosi: una volta tanto lo slogan che circola tra gli studenti – “non abbiamo paura” – dovrebbe ispirare una ripresa della sinistra anche sui temi istituzionali, per non lasciare alla vista corta della Lega alla rincorsa subalterna dei neodirigenti del “PD del Nord” la responsabilità di uno stravolgimento del patto sociale della nostra Costituzione.