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Generale

Rigenerazioni – Proposta per un soggetto politico non elettorale

Propongo alla lettura e alla riflessione un testo elaborato a più mani pubblicato su Carta questa settimana e alla cui stesura ho partecipato con l’intento di contribuire alla rigenerazione della rappresentanza in una situazione di profonda crisi delle forme tradizionali. Accanto a profondi disagi, si manifestano anche esperienze innovative e non episodiche che danno alla speranza un concreto ancoraggio. Per evitare il precipitare sempre di ogni tentativo sullo scoglio elettorale, il contributo si proietta su tempi lunghi, senza tuttavia atteggiamenti antipolitici o sottovalutazioni delle esigenze e delle scadenze politiche più tradizionali.La lunghezza del testo, di cui mi scuso, è richiesta dalla completezza di analisi necessaria per affrontare temi tuttaltro che scontati.

rigenerazioni

Proposta per un soggetto politico non elettorale

«Sono tempi difficili. Se tutti vogliono il potere, chi renderà tacito servizio?»
(M.K. Gandhi)

«Gli uomini anche se devono morire, non sono nati  per morire ma per incominciare»
(H. Arendt)

In questi anni abbiamo assistito a un degrado sempre più vistoso della qualità della vita politica e istituzionale nel nostro Paese, senza sapere come rispondere, frenare e invertire questo fenomeno.

A scandali e forme di degenerazione, strumentalizzazione e corruzione sempre più sistematica delle istituzioni si sono alternati momenti di indignazione e ondate di antipolitica che senza modificare il paesaggio della vita pubblica si sono sedimentate in un sentimento diffuso e radicato di sfiducia e in un giudizio cinico e disincantato sulla “casta” e sul funzionamento del processo politico.

Anche i movimenti sociali, l’associazionismo e le forze sindacali hanno separato i loro percorsi da quelli della rappresentanza istituzionale che si è andata sempre più inaridendo. In breve, l’Italia è diventata un Paese sempre più fatalista.

I. Partiti politici e movimenti sociali. Tra autoreferenzialità e impotenza

Il fatto è che una così bassa visione della politica produce una bassa motivazione al coinvolgimento in prima persona; contemporaneamente una partecipazione sporadica e di scarsa qualità al processo politico produce uno scarso impegno che a sua volta si “autogiustifica” in una spirale di passività, insofferenza e rifiuto.

Non mancano i segni di questa trasformazione. In Italia, come in molte democrazie storiche, è cresciuta la sfiducia verso le istituzioni e verso una ormai autoreferenziale classe politica. In quasi tutti i Paesi europei la fiducia nei politici e nelle istituzioni è andata declinando in maniera piuttosto netta negli ultimi decenni.[1] Il dato sull’astensione nelle ultime elezioni europee del giugno 2009 è davvero impressionante: in media la non partecipazione al voto in Europa è stata poco sotto il 57%.[2] Contemporaneamente gli iscritti ai partiti tendono a scemare ovunque. In Italia nell’ultimo decennio i partiti hanno perso oltre due milioni di iscritti. Più in generale i partiti si presentano oggi come strutture organizzative ridotte con un livello sempre più scarso di democrazia interna e una centralità crescente del leader. La stessa la progressiva spettacolarizzazione della politica[3] ha modificato drasticamente il ruolo e l’importanza delle organizzazioni politiche di tipo tradizionale.

Certamente, a fianco di questo, abbiamo visto negli ultimi anni anche manifestarsi un impegno sociale e politico in senso più ampio da parte di uomini e donne attivi/e in circoli, associazioni, Ong, centri sociali, movimenti. Secondo Pawl Hawken, che ha avviato un impressionante lavoro di censimento, esistono al momento più di un milione di organizzazioni che operano per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale.[4] E certamente queste realtà hanno avuto un ruolo importante – che non va assolutamente sottovalutato – nel determinare rilevanti trasformazioni politiche, sociali e culturali o nell’arrestare, almeno in parte, il degrado sociale, culturale e politico. Questo non ha frenato tuttavia nei cittadini la crescente sensazione che le decisioni che contano siano prese sopra la propria testa e talvolta contro la propria opinione e contro i propri interessi.

Nel contesto italiano, un momento chiave nell’emersione di questa contraddizione, si è avuta nel corso del 2003 quando nonostante la maggioranza della popolazione avesse espresso nei sondaggi e nelle strade la propria contrarietà alla guerra in Iraq il governo ha proceduto nel suo appoggio all’operazione militare senza tener minimamente conto del sentimento popolare.

Questo ci fa capire quanto la politica istituzionale sia divenuta sempre più autoreferenziale e – perlomeno in certi casi – impermeabile all’opinione pubblica. Tuttavia non si può evitare di riconoscere come ci sia stata una sottovalutazione nell’attività di controllo, vigilanza e giudizio sull’operato delle istituzioni e un oggettiva debolezza rispetto alla capacità di intervento in quei processi decisionali generali che riguardano la nostra vita e le sorti del nostro Paese, a partire da una delle scelte più importanti, quali la decisione di partecipare a una guerra.

A questo si aggiunge una semplificazione del quadro politico istituzionale con una deriva forzata verso forme di bipolarismo, di presidenzialismo, di spettacolarizzazione della politica, con crescenti aree di delusione e non partecipazione al voto e la scomparsa delle aggregazioni politiche ambientaliste e di sinistra radicale dall’arco parlamentare.

Questi pochi accenni bastano per ricordare la gravità del momento e per suggerire la consapevolezza che i tradizionali schemi dualistici che parlavano di “politica dal basso e politica dall’alto” diffusi tra pacifisti, no-global e alter-mondialisti, o quello “politica prima/politica seconda” avanzato da una parte del femminismo, pur avendo svolto in passato una importante funzione critica, non siano più adeguati per interpretare le esigenze e le sfide del momento attuale.

In altre parole, a prescindere dal declino sempre più evidente dei partiti tradizionali, quello che è mancato ai movimenti politici e sociali è una riflessione consapevole sull’importanza cruciale del momento “istituente” della politica, inteso sia come istituzione di significati (Cornelius Castoriadis) che come creazione di forme istituzionali che incorporino e riflettano coerentemente questi significati. Quello che è necessario dunque è una sperimentazione creativa che non si rinchiuda né nell’antagonismo verso le istituzioni né nella sottovalutazione dei processi istituzionali ma che si metta al centro del processo politico rinnovandolo alla radice nelle sue diverse dimensioni di relazione, di confronto, di autoeducazione, di conflitto, di riconoscimento, di solidarietà, di decisione.

II. Vecchi e nuovi cleavages: la trasformazione del sistema politico

Una seconda questione riguarda la difficoltà di riuscire a far entrare questioni preminenti come quelle della crisi ecologica, del riscaldamento globale, della tutela della biodiversità e dei beni comuni, della conservazione del territorio, della critica allo sviluppo, della decrescita, del governo della finalità della produzione, della rilocalizzazione della produzione e del consumo, ma anche questioni antiche e sempre riemergenti quali i fenomeni migratori, le diversità culturali e la differenza sessuale e le relazioni tra i sessi, all’interno dei programmi dei partiti e al centro dell’attività di un governo.

Ci sono probabilmente diverse spiegazioni a questa difficoltà, ma tra le altre si può prestare attenzione a un fatto. Questi temi non trovano rappresentazione non solo a causa di una sordità individuale dei politici o delle dirigenze dei partiti ma perché il sistema politico e i partiti corrispondenti sono nati storicamente attorno ad altri conflitti o cleavages che pur indeboliti continuano a stabilire i confini del confronto politico.

Il termine cleavages, usato per primo dal politologo norvegese Stein Rokkan, sta a indicare le linee di frattura, ovvero le opposizioni fondamentali che strutturano un sistema politico. Secondo Rokkan i sistemi politici europei si sono andati costruendo attorno a quattro fondamentali fratture: le prime due, nate dai processi di unificazione nazionale, sono l’opposizione centro/periferia e l’opposizione Stato/Chiesa; le altre due sono nate in seguito ai processi di industrializzazione capitalista e riguardano l’opposizione campagna/città (gli interessi legati all’agricoltura e quelli legati all’industria), e infine quella tra capitale/salariati.[5]

Oggi queste rigide opposizioni sono sempre più inadatte a dar conto del mutamento sociale, mentre i nuovi conflitti emersi nella seconda modernità, a partire dai processi di globalizzazione, non trovano adeguata rappresentazione nello spazio politico attuale.

Quello che sosteniamo è che processi quali la globalizzazione, la crisi ecologica,  i fenomeni migratori, l’informatizzazione, la trasformazione e la svalorizzazione del lavoro, la precarizzazione, la fine del patriarcato, la libertà e il protagonismo delle donne (e le resistenze che incontrano) nel lavoro e nella società, stanno creando un nuovo quadro politico che vede definirsi – seppure ancora in modo confuso – nuovi soggetti, nuove identità, nuovi valori, nuovi spazi pubblici, nuove forme di organizzazione, nuove pratiche di azione e soprattutto nuove richieste.

Da questo punto di vista il processo attuale va letto come lenta formalizzazione di nuovi cleavages, nuove fratture o opposizioni fondamentali che spingerebbero a ridisegnare gli attuali sistemi politici delle democrazie occidentali che ovviamente cercano di resistere o ritardare questo cambiamento. Oggi più di ieri una parte di questa resistenza è dovuta alla crescente ignoranza di ciò che sta davvero accadendo. Mai come oggi le classi che si auto-definiscono dirigenti sono disinformate su ciò che si muove sul terreno economico, ecologico, scientifico e persino politico-sociale, incapaci di collocare le conseguenze delle loro decisioni (o delle loro rimozioni) in una prospettiva storica o sociale più ampia, seppur tutto sommato ravvicinata.

Diventa sempre più chiaro, per esempio, il conflitto tra globale e locale, tra flussi e luoghi, tra crescita e sostenibilità, tra soggetti che vengono contrapposti e messi in competizione nel mercato del lavoro, tra generazioni attuali e generazioni future, tra le logiche della produzione e logiche della riproduzione e della rigenerazione. Queste opposizioni si mostrano talvolta attraverso soggetti definiti. Da una parte abbiamo delle élites economiche e politiche globalizzate, che si appoggiano a organizzazioni e istituzioni precise (corporations, istituzioni internazionali, WTO, BM, FMI, governi liberisti) e dall’altra le comunità locali: gente comune che è radicata nei territori e nelle città, lavoratori e lavoratrici immigrati/e o precari/e in lotta per il diritto al lavoro, ma anche lavoratori e lavoratrici della terra e soggetti economici legati alle specificità locali, movimenti di consumatori che portano avanti la tutela della qualità dei prodotti rispetto alle logiche dell’economia industriale, gruppi ambientalisti e femministi impegnati nella salvaguardia della biodiversità assieme a comunità indigene e di villaggio legate in maniera profonda all’ambiente naturale in cui vivono.

In questa[6] frattura sono in gioco interessi diversi, legati all’uso e alla distribuzione dei beni naturali, che attraversano non solo le relazioni tra Paesi ma anche il rapporto tra élites nazionali “sviluppiste” e comunità locali legate alla terra e alla conservazione del patrimonio locale o all’uso equilibrato della natura. La frattura si conferma anche sul piano dell’integrazione e della costruzione di legami. Mentre le élites globali spingono per una strutturazione di barriere materiali o immateriali – le nuove enclosures – che regolino attraverso l’accesso economico la definizione di chi è dentro e di chi è fuori, molti soggetti locali invece lottano per la conservazione di spazi e beni comuni – nuovi commons materiali e immateriali – accessibili a tutti e coltivati assieme per il bene della comunità intera. Infine la frattura definisce anche uno scontro culturale che oppone da una parte la competizione individualistica, il primato delle merci e la creazione di ricchezza economica per una minoranza e dall’altra i legami di solidarietà e cooperazione, il primato delle persone e la creazione di ricchezza sociale collettiva. Con questo non si vuole naturalmente rimuovere il fatto che questa frattura attraversa le nostre vite e noi stessi e che occorre per questo anche un processo collettivo che ci sostenga e ci accompagni nell’affrontare quotidianamente e coraggiosamente la necessaria trasformazione delle nostre abitudini e dei nostri stili di vita.

Ora nei sistemi politici attuali partiti e schieramenti sono rappresentanti dei clevages storici che pur contando ancora hanno tuttavia fortemente diminuito la loro significatività. Non trovano invece posto forze politiche che assumano esplicitamente e radicalmente l’opposizione tra gli interessi delle popolazioni locali e quelli del capitale globale. Il problema maggiore è che questa nuova frattura non si aggiunge semplicemente alle altre, ma taglia trasversalmente tutte le appartenenze tradizionali e implica in questo senso una riconfigurazione completa dei sistemi politici nazionali e un superamento dello spazio politico, sindacale e culturale tradizionale.

Del resto molte delle categorie tradizionali per identificare gli schieramenti destra/sinistra sono oramai ambigue e fuorvianti. Ha ancora valore, per esempio, la distinzione conservatori e progressisti e rispetto a che cosa? Le nostalgie identitarie non colpiscono entrambi gli estremi?

L’idolatria del nuovo e la continua obsolescenza del nostro patrimonio materiale e tecnologico a quale schieramento vanno imputati? Chi è a favore del libero mercato e chi dell’intervento statale? Dove collocare i difensori della crescita e dello sviluppo e coloro che parlano di decrescita e di sostenibilità? Chi difende la guerra e chi la nonviolenza? L’universalismo è di sinistra e il relativismo è di destra o viceversa? Siamo per l’uguaglianza o per il rispetto delle differenze? Siamo materialisti o post-materialisti? Fanaticamente antireligiosi o laicamente dubbiosi e curiosi?

E infine, intendiamo affidare acriticamente le scelte sul nostro futuro alla presunta razionalità degli scienziati oppure visto che «i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni urgenti» pretendiamo  – nell’ottica di quella che è stata definita “scienza postnormale”[7] – che anche i non tecnici, i cittadini interessati, possano partecipare alla raccolta delle informazioni, al controllo delle valutazioni, all’assunzione di decisioni in nome non di un’“indiscutibile verità” ma più prudentemente di una possibile “saggezza”?

Sarebbe facile continuare con queste domande, ma forse sono sufficienti per ricordarci che l’attuale paesaggio politico è complesso e articolato e le categorie e le opposizioni classiche non ci aiutano granché o solo fino ad un certo punto. Per quanto cerchiamo di farci stare dentro la realtà, c’è molto, troppo, che resiste ai tradizionali schematismi. Crediamo che nuove istanze possono coagularsi e farsi spazio soltanto rompendo vecchi schemi, scindendo vecchie unità e creandone di nuove, e spesso non per contiguità ma per rimescolamenti.

Non si tratta dunque di ancorarsi a una difesa assiologica dei valori della sinistra né d’altra parte di rassegnarsi a una liquidazione e omogeinizzazione di questi valori nel senso di un adattamento pragmatico a un contesto post-ideologico (o presunto tale), ma al contrario di lottare per ridefinire il campo e la cornice che solo può dare senso a nuove opposizioni e conflitti.

Inoltre rimane da esplorare la connessione tra il ripensamento dei contenuti fondamentali della politica (quelli che Marco Revelli chiama “meta-valori”)[8] e il ripensamento delle forme organizzative della partecipazione. Siamo convinti che l‘introduzione di questi nuovi temi richieda anche nello stesso tempo una reinvenzione delle forme dello stare insieme, del relazionarsi fra diversi e, più in generale, delle “pratiche politiche”.

Da questo punto di vista crediamo che il vero passo in avanti possa venire dal tentativo di costruire percorsi politici che mettano in discussione le vecchie organizzazioni partitiche e sindacali, non solo sui temi e sulle pratiche ma anche simbolicamente nel delineare un terreno di gioco differente, in cui parole, esperienze, pratiche magari già esistenti acquistino improvvisamente un senso e un’evidenza nuova.

III. Una nuova tipologia di attore politico

Sarebbe interessante da questo punto di vista il tentativo di mettere in scena una nuova tipologia di soggetto politico che non competa per il potere, inteso come dominio sugli altri, nemmeno attraverso la conquista elettorale degli apparati statali, ma che si proponga e agisca in uno spirito di servizio. Pensiamo a organizzazioni che non si muovano nella logica delle competizioni elettorali, ma che scelgano di agire in una dimensione politica differente e più ampia, di autoformazione e autoeducazione, di maturazione e trasformazione personale, e insieme di cura delle relazioni, di cambiamento culturale e di mutamento sociale.

Recentemente Serge Latouche, rigettando l’idea di un possibile “partito della decrescita”, ha scritto: «il lavoro di auto-trasformazione in profondità della società e dei cittadini a noi sembra più importante delle scadenze elettorali».[9] Siamo d’accordo.

Ma propongo di riflettere sul fatto che forse è venuto il momento di uscire dallo stallo e di cercare una soluzione creativa tra il rischio di istituzionalizzazione e burocratizzazione delle istanze della decrescita e il rischio di assumere un atteggiamento indifferente e passivo verso i processi istituzionali e le decisioni che in quei contesti vengono assunti. Occorre forse arrischiarsi a sperimentare modelli eccentrici e innovativi di impegno ma soprattutto di attività politica che mentre cambiano l’esistenza di coloro che ne fanno parte, contribuiscano contemporaneamente a modificare le forme e le condizioni della vita politica per tutti.

In particolare pensiamo a un soggetto – lo chiameremo provvisoriamente “attrattore politico” in omaggio alla teoria del caos – che si impegni in una prospettiva di decrescita, di transizione e di rigenerazione politica, ecologica e sociale. Tale “attrattore” dovrebbe caratterizzarsi per alcuni specifici elementi:

  • porre all’attenzione della gente e al centro del dibattito temi e proposte innovative o lungimiranti per essere facilmente recepibili o adottabili da forze tradizionali;
  • stimolare e agevolare una transizione del sistema politico promuovendo nuovi obbiettivi, nuove linee di conflitto e nuove possibilità di aggregazione su altre basi;
  • risultare per sua natura e funzionamento non ricattabile o corruttibile e conquistarsi così più facilmente la fiducia della gente. Costruirsi una propria credibilità non essendo legato a spartizioni di poltrone ma indirizzato all’obiettivo di realizzare alcuni risultati concreti;
  • stimolare la passione e il desiderio verso il confronto e l’impegno politico ma anche l’interesse verso le istituzioni democratiche, attraendo persone che non si riconoscono negli attuali schieramenti, che non votano o che lo fanno oramai da troppo tempo unicamente secondo la logica del meno peggio;
  • offrirsi come spazio di azione e relazione conviviale, libero, poroso e facilmente accessibile ogni qualvolta ci sia un progetto o un’azione che si ritiene interessante, senza obbligo di associarsi e senza bisogno di tessere di nessun genere. Offrire uno spazio di cura delle relazioni e di trasformazione di sé e delle proprie relazioni col mondo che contrasti i processi di individualizzazione e le chiusure egoistiche;
  • sperimentare e testimoniare nuove forme di relazione tra uomini e donne orientate al riconoscimento della differenza e al rispetto delle diverse soggettività, delle diverse scelte sessuali, delle diverse forme di unione, della libertà di ciascuno e ciascuna;
  • impegnarsi in un tipo di comunicazione «orientata a persuadere l’altro piuttosto che a sottometterlo in un rapporto di gerarchia»;[10]
  • accrescere la capacità di lavorare assieme tra diversi, curando la comunicazione, la condivisione, lo scambio, la valorizzazione reciproca tra persone, promuovendo l’abitudine a federarsi insieme tra gruppi ed esperienze differenti;
  • portare avanti campagne e iniziative a livello transnazionale, mostrando e anticipando una modalità di azione che spinga le persone a pensarsi al di fuori delle identità nazionali e a costruire rapporti e confronti tra diversi Paesi e comunità;
  • sostenere esperimenti politici a livello locale a partire da città e amministrazioni particolarmente sensibili ai temi dell’ecologia, della transizione e dell’autogoverno democratico. Promuovere una forma di impegno civico basato sull’amore del luogo e sulla cura dei beni comuni;
  • impegnarsi ad articolare e coniugare in modo nuovo temi quali l’equità e la giustizia sociale, la sobrietà e la sostenibilità, il riconoscimento delle differenze sessuali e culturali, la libertà di espressione e la solidarietà, il rispetto per le generazioni a venire e per tutte le specie viventi;
  • sostenere il mondo del lavoro non solo relativamente agli aspetti redistributivi e salariali, ma anche nella realizzazione di relazioni più umane, nel riconoscimento delle differenti soggettività, nella valorizzazione dei talenti, nella produzione di senso e significato, nel diritto a decidere sulla qualità e la redistribuzione dei prodotti, nella convinzione che i diritti del lavoro e la democrazia nei luoghi di produzioni siano la premessa per poter lottare con successo per il cambiamento;
  • aprire e rilanciare conflitti politici mantenendo una prospettiva e una modalità di azione esplicitamente e convintamente nonviolenta, avendo fiducia nella mediazione come pratica eminentemente politica;
  • in prospettiva fornire un contributo al ripensamento del “paradigma politico della modernità” e alla costruzione di un “nuovo paradigma politico”.[11]

Ci si può domandare che cosa differenzierebbe un simile soggetto da un tradizionale partito politico. Per un verso un tale “attrattore politico” potrebbe effettivamente svolgere alcune funzioni che i partiti non compiono in realtà più: l’intercettazione di bisogni e desideri diffusi tra i/le cittadini/e; l’elaborazione di politiche pubbliche; il coinvolgimento e l’integrazione delle persone; la formazione di personale impegnato politicamente; la costruzione di un senso di appartenenza collettivo.

Per un altro verso un simile soggetto si differenzierebbe nettamente da un partito politico per il fatto di non mirare alla raccolta dei suffragi, di non competere con altri soggetti per il potere o per l’occupazione di incarichi istituzionali.

Inoltre per la volontà di sottrarsi a una logica rappresentativa e per l’intenzione invece di promuovere una logica partecipativa (di coinvolgimento) e relazionale (di creazione e cura dei legami tra persone). E ancora per il fatto di non distribuire ai partecipanti né posti né opportunità di carriera e dunque di scoraggiare persone orientate al potere e al carrierismo.

Un simile soggetto dovrebbe inoltre puntare su una autorità dinamica e circolare piuttosto che rigida e fondata sulle figure tradizionali di leader e portavoce.

Analogamente ci si può domandare cosa differenzierebbe questo progetto da un’associazione o un tradizionale gruppo di pressione. In qualche dimensione potrebbe riprendere modalità e metodologie di azione e comunicazione già impiegate in movimenti sociali: la strutturazione reticolare, la capacità di mobilitazione, la tendenziale orizzontalità, la capacità di attivare passioni e forme di coinvolgimento personale, un’attenzione alle esperienze soggettive ed esistenziali, la rapidità di intervento attraverso azioni simboliche e dimostrative.

Tuttavia a differenza di un gruppo di pressione orientato a portare avanti e imporre un tema specifico all’interno dello spazio politico tradizionale, tale soggetto dovrebbe impegnarsi ad elaborare una prospettiva più generale e a modificare le strutture fondamentali e le forme stesse del sistema e del processo politico. In altre parole non si occuperebbe solamente di spingere in cima all’agenda politica un tema specifico ma promuoverebbe piuttosto un insieme di nuovi temi che nel complesso configurino un’altra visione della politica; o detto altrimenti si occuperebbe della connessione tra alcuni temi e sfide emergenti e la necessaria trasformazione e adattamento delle forme politico-democratiche.

In prospettiva potrebbe dotarsi di strumenti di auto-organizzazione leggeri e diffusi il più possibile nei diversi territori.

Fondamentalmente, si tratterebbe dunque di uno spazio e di una forma ibrida che utilizzerebbe aspetti e caratteristiche sia dei partiti che dei movimenti che dei gruppi di pressione.

IV. Ampliare il campo delle azioni politiche

Cosa potrebbe fare concretamente un simile soggetto?

Potrebbe svolgere diversi tipi di azioni: di sensibilizzazione, di vigilanza, di indagine, di pressione, di interdizione, di giudizio, di innovazione socio-politica. Di seguito ipotizzo alcuni esempi, fermo restando la convinzione che una volta liberatici dagli schemi che ci impediscono di pensare, siano molte altre le idee e le iniziative che si potrebbero promuovere o sperimentare.

  • Sperimentare nuovi strumenti partecipativi e di autorganizzazione che coinvolgano i singoli cittadini, anche quelli non associati ed organizzati nella formazione di agende politiche, nella formulazione di obiettivi sociali e nell’istituzione di significati collettivi; che promuovano un superamento della tradizionale opposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta in favore di processi di apprendimento e deliberazione fondati su un’idea di interazione costante e di copilotaggio.
  • Promuovere forme di attività politica favorevoli alla partecipazione di entrambi i sessi a partire dalle diverse soggettività, e da sensibilità, esperienze, bisogni e desideri molteplici e differenti. Denunciare qualsiasi forma di machismo, di dominio e sottomissione sessuale, di sfruttamento e di violenza contro le donne, di svalorizzazione dell’immagine femminile e di quella maschile. Favorire processi politici basati su un idea flessibile, mobile e dinamica dell’ autorità tendenzialmente ostile all’irrigidimento, alle gerarchie e alle pratiche di potere. Assumere e mettere al centro la capacità “femminile” di riconnettere personale e politico, di fondare le pratiche e le scelte politiche sulle esperienze relazionali ed esistenziali fondamentali, di ricomporre con sensibilità e intelligenza i diversi frammenti – interiori ed esteriori – della nostra vita. Promuovere dunque un’attività politica non fondata sull’angoscia e la paura dell’altro (nelle diverse forme del razzismo, del sessismo, del fondamentalismo) ma viceversa sul desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri.
  • Impegnarsi a costruire un nuovo “spazio pubblico socio-ambientale” promuovendo un’idea di democrazia come autoformazione e autoeducazione. Da un punto di vista concreto si potrebbe a) lanciare una campagna di un anno di informazione, formazione, educazione e servizio sui temi dell’ecologia e della sostenibilità (esaurimento risorse, riscaldamento globale, perdita di biodiversità, conflitti ambientali ecc.); b) lanciare l’idea di un periodo di servizio civile ecologico per tutti i residenti sul territorio nazionale, italiani e immigrati, come percorso di accesso alla cittadinanza; c) lottare per imporre alcune regole e alcune garanzie sul piano dell’informazione e comunicazione scientifica e ambientale nei media e nei giornali; d) sostenere sul piano sociale, culturale e politico nuovi stili di vita individuali e sociali, nuovi modi di produrre, consumare e viaggiare;  e) più in generale introdurre nuovi temi al centro della discussione pubblica e ottenere una modificazione dell’attenzione e delle priorità non solo nell’agenda politica ma anche nei processi formativi ed educativi.
  • Diffondere un’idea differente del territorio, né identitaria né escludente, proponendo quello che si potrebbe chiamare un “Territorialismo solidale”. Una concezione basata sulla centralità del territorio in senso non egoistico e non localistico, sia promuovendo legami e reti tra soggetti territoriali sia promuovendo un terreno di scambio e di collaborazione di tipo transnazionale. Mostrare quindi che si può fare politica con un approccio non solo nazionale e internazionale ma anche autenticamente transnazionale.
  • Lanciare l’idea di un “patto tra generazioni” e promuovere a questo proposito un radicale ampliamento dell’orizzonte temporale dell’azione e della responsabilità politica. In termini concreti lanciando alcuni progetti e iniziative che abbiano come obiettivi o ricadute le generazioni a venire e spazi temporali molto ampi anche di secoli o addirittura millenni.[12] Per esempio progetti intestati alle generazioni a venire di conservazione delle risorse e dei territori, di cura e promozione della biodiversità, di conservazione delle conoscenze e della memoria, nello spirito della comunicazione e del dono a coloro che verranno dopo di noi. Sul piano delle attività di vigilanza e interdizione[13] si dovrebbero monitorare le attività, le norme, i provvedimenti, e i progetti delle istituzioni locali, nazionali ed europee su alcuni temi, produrre inchieste e rapporti su temi rilevanti e contrastare qualsiasi iniziativa che, per fare un esempio, proiettasse un evidente impatto negativo sulle generazioni future.
    Per esempio un uso sconsiderato delle risorse non rinnovabili, o progetti come quello di rilancio del nucleare che a causa dell’irrisolto problema delle scorie radioattive rappresenta uno scaricare i problemi a chi verrà dopo di noi. Il soggetto politico di cui stiamo parlando potrebbe presentarsi come un’agenzia civica di osservazione, di indagine e giudizio, nonché sviluppare forme di veto e interdizione politica. Forme di attività politica di interdizione sono l’ostruzionismo, le occupazioni, i presìdi, manifestazioni pubbliche teatralizzate ecc. Si potrebbe anche immaginare una modalità di conservazione dei dati relativi alle scelte ad alto impatto ambientale e sociale in modo che si conservasse una memoria nel tempo delle responsabilità individuali e collettive rispetto a certe scelte, e pian piano emergesse l’idea di poter essere giudicati dalle generazioni future.[14]
  • Promuovere un ripensamento del demos e della cittadinanza attiva in modo da tenere conto: a) delle nuove forme di mobilità globali, estendendo i diritti di cittadinanza anche ai migranti che risiedono in un determinato territorio per un certo periodo di tempo; b) delle generazioni future e del legame di responsabilità tra generazioni; c) della necessità di ampliare la sfera dei diritti e delle garanzie anche alle altre specie viventi promuovendo una forma di cittadinanza ecologica tra tutte le forme di vita appartenenti alla comune “famiglia terrestre”.
  • Promuovere un’accelerazione del mutamento istituzionale in modo da passare da modelli ecologicamente e socialmente irresponsabili a forme di responsabilità e di riflessività politica-istituzionale. Iniziative di questo tipo potrebbero prevedere: a) la lotta per l’affermazione di diritti procedurali in campo ecologico per porre sotto il controllo della popolazione locale progetti di infrastrutture, di grandi opere o di azioni di grande impatto ambientale; b) la lotta per l’imposizione di forme di responsabilità intergenerazionale e di norme di garanzia per le generazioni a venire; c) aprire un dibattito sull’opportunità di promuovere riforme costituzionali o processi costituenti in vista di nuovi testi fondamentali basati sull’idea di sostenibilità e di rigenerazione; d) promuovere l’idea di un rinnovamento ed ampliamento dei fori di discussione, confronto e deliberazione fondati sul criterio della ”base territoriale appropriata” a livello di specifici ecosistemi (una valle, un bacino idrografico, una area montana, un area costiera, ecc…) che si aggiungano e si integrino con le arene decisionali tradizionali (comuni, provincie, regioni, nazioni) e in prospettiva aiutino a ripensarle.

Questo documento è un tentativo di aiutarci a pensare al di fuori degli schemi e delle categorie tradizionali per aprire delle porte e incamminarci su nuovi sentieri. La speranza è che, al di là dei singoli aspetti più o meno discutibili, possa liberare l’immaginazione e rilanciare la discussione su un piano differente.

Giugno-luglio, 2009

Marco Deriu, Paolo Cacciari, Mario Agostinelli, Daniele Barbieri, Chiara Marchetti, Maurizio Ruzzene, Ferruccio Nilia, Mauro Bonaiuti, Dalma Domeneghini, Gianni Tamino, Auretta Pini, Enrico Moriconi.


[1] Cfr. Pharr Susan J., Putnam Robert D. (a cura di), Disaffected Democracies. What’s Troubling the Trilateral Countries?, Princeton University Press, Princeton, 2000; Colin Hay, Why We Hate Politics, Polity Press, Cambridge, 2007; Gerry Stoker, Perché la politica è importante. Come far funzionare la democrazia, Vita & Pensiero, Milano, 2008.

[2] In Italia l’astensione ha raggiunto il 33.5%; Slovacchia, Lituania, Romania, Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia oscillano tra il 70% e l’80%; anche Germania, Francia e Spagna raggiungono percentuali di astensione tra il 55 e il 59% dell’elettorato attivo.

[3] Sul tema della spettacolarizzazione della politica o della “democrazia spettacolare” si veda il testo scritto a più mani “Carta della democrazia insorgente”, Carta, 21 maggio 2009 e l’articolo di Pierluigi Sullo “Lo show della barbarie contro le nuove comunità”, Carta, 3 luglio 2009.

[4] Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile. Come è nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se ne è accorto, Edizioni Ambiente, Milano, 2009. Si veda anche la piattaforma online World Index of Social and Environmental Responsability (WISER): www.wiserearth.org

[5] Cfr. Stein Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, Il Mulino, Bologna, 1982; Stein Rokkan, Stato, nazione e democrazia in Europa, Il Mulino, Bologna, 2002. Si potrebbero naturalmente rintracciare altre opposizioni storiche, per esempio tra l’ideale emancipatore del “progresso tecnologico scientifico” e forme di resistenze economiche-sociali-culturali, spesso lette semplicisticamente come “reazionarie”, ma tali opposizioni non hanno trovato una declinazione politica definita.

[6] Come è noto, recentemente alcuni governi dell’America Latina – in particolare l’Equador e la Bolivia – hanno introdotto nelle loro costituzioni e leggi fondamentali, importanti riferimenti alla Madre Terra e alla tutela della natura e delle diverse specie viventi.

[7] Funtowicz, Silvio and Jerry Ravetz; “Post-Normal Science.” In: Encyclopedia of Earth. Eds. Cutler J. Cleveland ( Washington, D.C.: Environmental Information Coalition, National Council for Science and the Environment). http://www.eoearth.org/article/Post-Normal_Science; Joan Martinez Alier, Ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Jaca Book, Milano, 2009.

[8] Marco Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Laterza, Roma-Bari, 2007.

[9] Serge Latouche, “La decrescita non è un partito”, Carta, 12 giugno 2009.

[10] “Carta della democrazia insorgente”, cit.

[11] Marco Revelli, op. cit.

[12] Si veda a questo proposito il bel libro di Stewart Brand, Il lungo presente. Tempo e responsabilità, Mattioli 1885 Fidenza, 2009.

[13] Sui poteri di sorveglianza, interdizione e giudizio si veda Pierre Rosanvallon, La politica nell’era della sfiducia, Citta Aperta, Troina, 2009.

[14] Su questa idea rimando ancora a Stewart Brand, op. cit.