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“Cercare il sole”

Cercare il Sole, Mario Agostinelli - Roberto Meregalli - Pierattilio Tronconi

Cercare il sole

Autori:
Mario Agostinelli

Roberto Meregalli
Pierattilio Tronconi

Parole chiave:

Introduzione di: Enrico Panini
Prefazione di: Riccardo Petrella
Pubblicato nel: Giugno 2011
Pagine: 328
ISBN: 88-230-1567-8

Prezzo: 20.00€

Il saccheggio dei beni comuni, quali l’energia e l’acqua, perpetrato dalle nostre società in nome della crescita economica e dello sviluppo tecnologico, non é una dimostrazione di saggezza, argomentano con accurata dovizia di dati e analisi Agostinelli, Meregalli e Tronconi in questo libro. Né è espressione di saggezza, secondo gli Autori, quella di voler continuare il saccheggio del futuro della vita ricorrendo all’energia nucleare. Essi non credono che i beni comuni possano essere ridotti a merci, oggetto di appropriazione e di uso al servizio della bramosia di potenza e della cupidigia dei pochi. Quando si riferiscono alla necessità di integrare il discorso sull’energia con quello sul clima, sull’acqua e sulla terra indicano il tratto conduttore di un programma sociale e politico che riguarda anche il lavoro e che non può che affascinare i giovani derubati di futuro.

Per l’Italia, la riconversione ecologica dell’economia, a partire dall’occasione straordinaria di «passare al Sole», rappresenta una grande opportunità per affrontare l’emergenza ambientale e per contribuire alla soluzione dei problemi occupazionali e di qualità del lavoro che la crisi presenta.

CARTA: recensione Cerchiamo il sole

7/05/2011M. Agostinelli R. Meregalli P. Tronconi

Per la prima volta nella storia, sotto l’incalzare di eventi catastrofici che si sono abbattuti su vasti territori e hanno colpito intere popolazioni e grazie allo sviluppo e diffusione delle informazioni e delle conoscenze scientifiche, la popolazione mondiale ha preso coscienza della fragilità dell’ambiente con cui interagisce vivendo, producendo e consumando. Si sta formando una coscienza planetaria che identifica nell’integrità della biosfera la possibilità stessa di sopravvivenza della specie umana. I nuovi strumenti messi a disposizione dalle reti telematiche e informatiche e la multimedialità della comunicazione che corre su Internet alla
velocità della luce, rendono possibile trasmettere e illustrare in contemporanea gli accadimenti nel mondo, permettendo a chi vi accede di assistere al loro evolversi e di valutarne appieno la portata nei limiti in cui non siano operanti censure e rimozioni. Oggi una consapevolezza del destino che ci attende e una azione collettiva per riprendersi il futuro dipendono in gran parte dalla democrazia e dalla riconquista e difesa di essa giorno per giorno, luogo per luogo. Una cresciuta sensibilità sociale e individuale che reclama la protezione dell’ambiente, che protesta contro la crescita delle diseguaglianze tra aree geografiche, che si indigna davanti alla vergognosa povertà che affligge
intere nazioni e che si batte contro il ricorso alle armi per risolvere i conflitti economici e politici tra Paesi, si incardina nella battaglia per la democrazia.

Gli eventi recentissimi e in corso che riguardano la sponda Sud del Mediterraneo e il mondo arabo vanno letti anche in questa prospettiva. Si sta cioè affermando su scala globale una nuova sensibilità – per quanto riguarda gli argomenti che tratteremo di seguito – che ha costretto le Istituzioni nazionali e mondiali a dover prendere in seria considerazione gli studi messi a disposizione dai maggiori Organismi internazionali, riguardanti i cambiamenti climatici e i preoccupati appelli che da diverse parti vengono avanzati perché si dia corso urgentemente agli interventi necessari per invertire l’insostenibilità della situazione in atto. Pena trovarsi tra pochi decenni a far fronte a problemi di enorme portata, tali da sconvolgere i cicli naturali e la sostanza della vita sul nostro pianeta. Di tempo infatti non sembra che ne rimanga molto, visto che gran parte degli studi sui cambiamenti climatici ci avvertono che in assenza di interventi il pianeta continuerà a surriscaldarsi causando lo scioglimento di gran parte dei ghiacciai perenni che a loro volta favoriranno l’innalzamento del livello dei mari e degli oceani: eventi che farebbero scomparire isole e gran parte delle terre popolate che si affacciano su di essi. Le popolazioni costiere verrebbero costrette a migrare e a concentrarsi nelle già affollate aree urbane, mentre in altre estese parti del pianeta l’inaridimento del suolo renderebbe impossibile la sopravvivenza delle popolazioni presenti, costrette ad allontanarsi. Tutto ciò non in un futuro indeterminato, ma entro i limiti temporali di questo secolo.

Per migliaia di anni nessuna delle civiltà che ci ha preceduto ha mai contemplato l’eventualità che le conseguenze dell’attività umana potessero lasciare un segno così profondo e duraturo nella storia del nostro pianeta e della vita che prospera su di esso da minacciarne la sopravvivenza. Ciò invece è già oggi documentato dallo sconvolgimento del mondo vegetale e dallo sterminio di decine di migliaia di specie di animali. Eventi che ormai contrastano con i processi governati dall’evoluzione naturale che hanno caratterizzato gran parte della storia della terra.

È oramai riconosciuto che gran parte delle responsabilità connesse al saccheggio delle risorse del pianeta e ai cambiamenti climatici è da imputare al sistema economico e al modello di sviluppo dei Paesi maggiormente industrializzati. Un modello distorto che per sostenere il processo di accumulazione capitalistica privilegia una parte ristretta della popolazione mondiale mentre la maggior parte non è in condizioni di poter soddisfare bisogni primari quali l’alimentazione, la salute e l’istruzione. Nel mondo ci sono Paesi in cui si consuma troppo e altri
invece in cui si consuma troppo poco. E poi vi sono grandi Paesi, quali la Cina e l’India, che si sono affacciati da alcuni decenni nella competizione internazionale imitando in larga parte il modello produttivo e di consumo dei Paesi industrializzati dell’Occidente. La loro domanda, connessa alla produzione di beni da destinare al mercato interno e internazionale, va ad accrescere le dinamiche in
atto sia per quanto riguarda i problemi connessi alle fonti energetiche fossili che all’inquinamento e ai cambiamenti climatici.

Ogni giorno: vengono disboscati 40 mila ettari.
Ogni giorno: le aree desertiche aumentano per 30 mila ettari.
Ogni giorno: consumiamo 85 milioni di barili di petrolio.
Ogni giorno: scarichiamo in atmosfera 100 milioni di tonnellate di CO
Ogni giorno: si estinguono 150 specie animali.
Ogni giorno: siamo 250 mila esseri umani in più.
Ogni giorno: produciamo 10 miliardi di tonnellate di rifiuti!

La crescente difficoltà di prelevare dalla terra risorse sempre maggiori ha altresì messo in crisi un altro mito: quello della crescita illimitata. Un mito che postula la possibilità di attingere senza riserve alle risorse della terra e la capacità naturale del pianeta di porre rimedio alle alterazioni del ciclo naturale conseguenti alle attività dell’uomo. Una posizione che nega la responsabilità dell’azione umana sui cambiamenti climatici e che al contrario ritiene che essi facciano parte di cicli naturali. Anni fa patrimonio di pochi, oggi è invece largamente condiviso
l’approccio che postula la «coscienza del limite», ossia il riconoscimento che le azioni umane devono tenere in adeguato conto il fatto che le risorse del pianeta sono finite e che l’atmosfera che ci circonda, come il suolo, i mari, i fiumi, i laghi, le foreste, non possono sopportare interventi generati dall’azione dell’uomo che vadano ad alterare i fragili equilibri dell’ecosistema.

Anche se nella parte ricca e privilegiata del mondo le iniziative politiche che dovrebbero guidare il cambiamento verso modelli di sviluppo a basso consumo di materie prime e di fonti energetiche fossili vengono fortemente frenate dai poderosi interessi economici che mal sopportano la loro messa in discussione o ridefinizione, nella popolazione le questioni connesse alla vita sulla terra cominciano ad anteporsi a quelle dell’economia. Crescono i dubbi circa la sostenibilità nel tempo del nostro modo di produrre, circolare e consumare e sulla sua estensibilità a quella gran parte della popolazione mondiale in crescita che vive ai margini delle società del «benessere» e a cui viene chiesto, per il loro sviluppo, di imitare il modello affermatosi presso i Paesi industrializzati. Interrogativi che già alla fine degli anni ottanta la «Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo» dell’Onu aveva sollevato in un suo importante lavoro rilevando che: «Molti degli attuali sforzi volti ad assicurare e mantenere il
progresso umano, a soddisfare gli umani bisogni e a dare attuazione a umane ambizioni, sono semplicemente insostenibili, e ciò sia nelle nazioni ricche sia in quelle povere. […] Noi prendiamo a prestito capitali ambientali di generazioni future, senza avere né l’intenzione né la possibilità di rifonderli: le generazioni future potranno maledirci per il nostro atteggiamento da scialacquatori, ma non potranno mai farsi ripagare il debito che abbiamo contratto con loro». [Brundtland G.H.,
1987, p. 32]. Tali interrogativi hanno fatto breccia presso le Istituzioni a vari livelli e il tema dello «sviluppo sostenibile» è entrato dopo gli anni novanta a far parte della legislazione di diversi Paesi. Si trattava in parecchi casi di approcci assolutamente modesti. Tuttavia il riconoscimento anche solo formale di tale problematica ha dato spinta alle lotte di gran parte della popolazione del pianeta per rivendicare migliori condizioni di vita nel rispetto della natura. Una crescente consapevolezza che ha travalicato i limiti individuali e quelli riconducibili solo ai movimenti ambientalisti. Movimenti sempre più popolari, il cui pensiero innovativo e il cui lungimirante e insostituibile lavoro ha consentito di liberare e dare voce alle lotte locali e nazionali, creando talvolta un circuito virtuoso tra espressioni di democrazia diretta e istituzioni di democrazia delegata, costrette a dar corso a leggi e interventi altrimenti ignorati senza una spinta dal basso.

Oggi, a distanza di due decenni, si stanno ormai strutturando su scala globale organizzazioni e movimenti capaci di mobilitare grandi masse. Basti pensare alla crescita che ha registrato il movimento globale sulla pace, i diritti e sui beni comuni, come l’acqua e l’energia, in collegamento con la battaglia sul cambiamento del clima e con la lotta alla povertà. Un movimento che, dopo
Seattle, ha attraversato i Forum Sociali Mondiali da Porto Alegre (2001) a Mumbay (2005), a Caracas e Bamako (2006) e che ha raggiunto la sua maturità trasferendosi dall’America Latina all’Africa e all’Amazzonia [Nairobi (2007), Belem (2009), Dakar (2011)]. Un movimento composito e molto articolato localmente, inizialmente organico e coeso anche in Europa, ma che nel nostro Paese si sta ridefinendo, nelle sue dimensioni territoriali, principalmente attorno ad acqua,
aria, energia e terra. Ciò proviene proprio dalla convinzione che la conservazione ambientale e la sopravvivenza vadano di pari passo, così come lo spreco di energia e di suolo intralcino una società che ha bisogno di più giustizia per rinsaldarsi. Siamo a un passaggio dello sviluppo che impone di rifasare con l’orologio della biosfera sia i ritmi produttivi che i tempi dei cicli naturali, accelerati e squilibrati dalla disponibilità delle fonti fossili (lavoro di milioni di anni del sole da bruciare in un baleno) e consegnati al mercato e al profitto dal sistema industriale del capitalismo globalizzato.

Cicli «spremuti» oltre ogni misura: per la terra cementificata ed erosa o spinta a raccolti abbondanti ma non ripetibili dall’uso dei fertilizzanti, dall’irrigazione intensiva, dall’impiego di sementi geneticamente modificate; per l’acqua forzata ben oltre la gravità e l’evaporazione che ne regolano la rigenerazione; per il vento caricato di energia distruttiva dalle emissioni e dagli inquinanti; per il fuoco reso abbondante e disponibile dal consumo di gas, carbone e petrolio e dalla conversione della materia.

Mentre l’orologio che scandisce il passare del tempo ci avverte dei forti ritardi accumulati nella lotta contro i cambiamenti climatici e sollecita risposte concrete da attuarsi nel giro di pochi decenni, assistiamo oggi a una ripresa imponente, nel dibattito politico e istituzionale, del ricorso all’energia da fonte nucleare [quella della cosiddetta terza e quarta generazione], che si pretenderebbe «più sicura e a basso impatto climalterante», in sostituzione dell’impiego delle fonti fossili nelle centrali termoelettriche. Un dibattito che ha assunto sul versante governativo del nostro Paese connotati grotteschi a ridosso del terrificante terremoto e del devastante tsunami che ha colpito il Giappone l’11 marzo 2011, che ha causato altresì una catastrofe nucleare a Fukushima, le cui dinamiche e problematiche verranno descritte in una apposita sezione di questo libro.

Mentre la popolazione mondiale veniva scossa dalle terrificanti immagini dei reattori fumanti che esplodevano uno dopo l’altro, emettendo micidiali radiazioni che, al momento in cui scriviamo, hanno costretto il Governo giapponese a chiedere alla popolazione residente in un raggio di 30 Km dalla centrale di Fukushima Daiichi e di 10 Km da quella di Fukushima Daiini di allontanarsi (circa 340.00 persone); mentre i Governi dei Paesi nuclearizzati assumevano provvedimenti prudenziali che comportavano la chiusura immediata delle centrali più vecchie (Germania) e l’avvio di una moratoria sulle decisioni riguardanti la costruzione di nuove centrali e il prolungamento dell’attività di quelle che si trovavano al termine del loro ciclo di vita, il Governo del nostro Paese, in buona compagnia con i sacerdoti dell’atomo e i tecnocrati di Enel e Confindustria, si distingueva per una difesa a oltranza della scelta di sdoganare l’atomo a tutti i costi, in barba all’annunciata consultazione popolare. Tale e tanta è la certezza di aver fatto comunque una scelta giusta, che gli audaci Ministri Prestigiacomo e Romani annunciavano sicuri: «La linea italiana sul programma nucleare non cambia», prendendo in considerazione una moratoria solo a fini tattici per vuotare il referendum.

Una linea che i sondaggi della popolazione mostravano di non gradire, anche se i membri dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza [con in testa il suo ineffabile presidente, il prof. Veronesi) imperversavano su tutte le reti radio televisive nazionali per tranquillizzare gli italiani, da sottrarre all’emotività e illuminare con la «ragione» delle loro spiegazioni tecniche e con la «fede» in una scienza assuefatta alla pretesa – essa sì irrazionalmente emotiva – di saper mettere sempre le braghe alla natura. Quella nucleare è – ne parleremo in seguito in dettaglio – una scelta perniciosa e da rigettare se si è convinti della necessità di un risolutivo cambiamento. Può venire imposta come strada obbligata solo se si vuole garantire la continuità del modello in essere, poiché non richiede un radicale ripensamento dei sistemi di trasporto, distribuzione e utilizzo dell’energia in particolare quella elettrica). Un’opzione che inoltre confligge non solo con i ristretti tempi ritenuti necessari per rientrare nei livelli di emissioni di gas climalteranti considerati «accettabili», ma anche con l’inasprimento della crisi economico-finanziaria che dagli USA si è propagata su scala globale a tutti i Paesi del pianeta. Gli investimenti ad alta intensità di capitale e a lungo ritorno della filiera dell’uranio mal potrebbero essere sopportati dalle economie dei vari Paesi, che sono tenuti invece a cercare in tempi brevi vie di uscita dalla recessione mondiale.

In definitiva, sono i grandi interessi economici legati all’industria nucleare e alle fonti energetiche fossili che alimentano l’illusione di protrarre ancora per lungo tempo modelli e processi obsoleti, anche a costo di svantaggi economici per il Paese e danni ambientali e alla salute dei cittadini. E per farlo hanno bisogno di forzare l’opinione pubblica: «Il nucleare, come scelta strategica e possibile “grande progetto” per il Paese, richiede una grande presa di coscienza delle implicazioni rilevanti, sulla base di fatti ed evidenze oggettive. Laddove il nucleare viene scelto, questa deve essere una scelta condivisa: è necessario dunque un grande consenso sociale.

La comunicazione deve fornire le informazioni necessarie per coinvolgere la popolazione fin dall’inizio del processo decisionale». [ENEL, EDF, Studio Ambrosetti, 2010, p. 31]. Così, in caso di fallimento della campagna mediatica, in ambito legislativo è già stata prevista la possibilità di ricorrere alla militarizzazione dei siti prescelti per i cantieri e a processi decisionali di tipo autoritario.

Occorre riportare in primo piano le indicazioni che da varie parti sollecitano investimenti di breve e medio periodo finalizzati all’innovazione dei processi produttivi e dei prodotti nei settori energetici e dei mezzi di trasporto e che hanno come obiettivo il conseguimento del risparmio energetico, l’aumento dell’efficienza e il ricorso all’uso su vasta scala delle fonti rinnovabili.

Il consenso sociale che si è espresso nella raccolta di firme a sostegno del referendum abrogativo di parte dell’articolato riguardante la cosiddetta «legge di sviluppo» per il ritorno dell’atomo nel sistema elettrico nazionale e il successo della raccolta di firme per la proposta di legge di iniziativa popolare «No al nucleare Sì alle rinnovabili» fanno ben sperare. Forse «l’oblio ventennale» della
questione nucleare, che il documento sopra citato degli Enti energetici italiano e francese pone alla base della esistenza di una diffusa ignoranza informativa, non è reale e il sedimento di un movimento «antico di un lustro», tutt’altro che cresciuto sull’emotività, fa rigermogliare un’attenzione e una creatività che già mentre scriviamo hanno metabolizzato la vicenda giapponese non come una patologia, ma come la fisiologia di un sistema da abbandonare.

Con questo lavoro, che fa seguito a un precedente libro, L’energia felice [2009], ci proponiamo non solo di sollecitare al confronto, confutandone le tesi, le intelligenze di coloro che ritengono che il ritorno del nucleare serva al Paese, ma intendiamo anche e soprattutto esporre gli spazi e gli orizzonti che sono oggi resi possibili dal ricorso a quella fonte nucleare che la natura ci ha donato e che brilla ogni giorno a debita distanza nel nostro cielo, alimentando i processi vitali del pianeta Terra: il Sole.

[Questo saggio è tratto da «Cercare il sole. Dopo Fukushima», di Mario Agostinelli, Roberto Meregalli e Pierattilio Tronconi, Ediesse. Il libro, che sarà nelle librerie dal 25 maggio, è arricchito dalla prefazione di Riccardo Petrella e dell’introduzione di Enrico Panini] [328 pagine, Euro 20]

RUBRICA di Pierluigi Sullo
DEMOCRAZIAKMZERO
Questo è il paese del sole

Cade proprio a fagiolo, come si dice, il bel libro «Cercare il sole. Dopo Fukushima», scritto da Mario Agostinelli, Roberto Meregalli e Pierattilio Tronconi, con introduzioni di Riccardo Petrella e di Enrico Panini, segretario confederale della Cgil (Ediesse, 325 pagine, 20 euro).
La Cassazione ha decretato che i cittadini hanno il diritto di dire la loro sul nucleare, nonostante i trucchi del governo per salvare il «Programma nucleare» annunciato con spreco di tromboni dall’ex ministro Scajola (quello che abita di fronte al Colosseo) e tanto caro alla lobby industriale che ha affidato una costosissima e disastrosa campagna di opinione all’ex ambientalista Chicco Testa. Il 12 e 13 giugno potremo dare un secondo e definitivo colpo di grazia agli apprendisti stregoni dell’atomo (e dei super-affari), nonché agli accaparratori di acqua e ai sostenitori della legge che non è uguale per tutti. Ma il libro fa un passo oltre: non solo spiega perché l’uranio è una risorsa sulla via dell’esaurimento, non solo spiega come Fukushima sia il rivelatore dell’insicurezza cronica delle centrali, ma, di più, racconta in
modo pratico, con abbondanza di schemi, grafici e mappe, come l’energia rinnovabile, il solare in particolare, sia molto più desiderabile dal punto di vista ambientale, sociale e politico. Già, perché sistemi centralizzati di produzione e distribuzione di energia sono non solo rigidi e inefficienti (l’efficienza e il risparmio sono le prime «fonti» rinnovabili), ma ostacolano una gestione democratica, alla portata dei cittadini, di questo settore decisivo della vita sociale. Perciò, con il tipico piglio degli autori (Meregalli si occupa della formazione per i Beati i costruttori di pace, per dire), «Cercare il sole» si propone anche come manuale pratico a disposizione di associazioni e comunità: volete l’energia solare?
Bene, sappiate che il suo significato è questo, e che in pratica si fa così. Se posso permettermi, è, su questo lato della generale questione del limite, l’altra faccia del libro di DKm0, «Calendario della fine del mondo». Però c’è una ragione ulteriore di interesse, nel libro. Che si trova nell’introduzione di Enrico Panini, il quale scrive: «Servono politiche di crescita economica sostenibile fondata su un sistema energetico prevalentemente alimentato da fonti rinnovabili e territorialmente distribuito e sull’assunzione del limite ambientale come discriminante». E aggiunge: «Come Cgil siamo convinti che per l’Italia, per l’insieme delle sue caratteristiche economiche, produttive, sociali, ambientali e culturali la riconversione ecologica dell’economia… rappresenti una grande opportunità». Anche per creare lavoro. Ora, a parte che «crescita» e «limite» non stanno insieme, queste parole di Panini vanno accolte da un applauso. Se la Cgil abbandonasse – come non fa in Valle di Susa – il sostegno a qualunque cosa sembri promettere «sviluppo» e «lavoro», i cittadini che hanno votato per candidati a sindaco che promettono tutela dei beni comuni, e che voteranno contro il nucleare e per l’acqua pubblica, troverebbero un alleato assai importante.
sullo.zero@gmail.com

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