REPOSITORY

Forum Sociale Mondiale

FSE Parigi 2003. Rivista Manifesto, Mario Agostinelli

Premessa

“Non è stato facile prendere l’ereditè dell’immenso successo di Firenze”. Con queste parole Michel Rousseau, segretario di Euromarches-marches europeennes ed uno degli organizzatori del Forum Sociale Europeo 2003 di Parigi, inizia la sua lettera di ringraziamento e di compiacimento indirizzata a quanti hanno dato vita alla cinque giorni di Paris-St. Denis- Bobigny-Ivry dei movimenti sociali dell’Europa. C’è tutta la soggezione per la sorpresa magnifica, quasi impossibile da ripetere, con cui si era usciti dai dibattiti della Fortezza da Basso e si era riconsegnata Firenze alla pace con un fiume di un milione di persone, dopo averla liberata dalla paura e dall’ira animosa e ridicola delle Fallaci, degli Zeffirelli, dei Berlusconi. E c’è una parte anche del rammarico con cui, a distanza di un anno – quasi un secolo di questi tempi! – si registrano le sfasature tra movimento e politica, tra societè ed istituzioni, tra aspirazioni mature al cambiamento e la violenza oscurantista del terrorismo e della guerra. Uno stare in campo fiducioso della democrazia mentre i poteri convergono sulla visione unilaterale di una elite mondiale che non cerca il consenso. A mio avviso non si sta rendendo giustizia a ciè che questo movimento duraturo, in grado di emergere ad ogni appuntamento significativo, radicato in forme sconosciute alle esperienze che l’hanno preceduto, costituisce per la ricostruzione di uno spazio pubblico in cui la rappresentanza, la democrazia ed i diritti valgano in sè e non come appendici residuali del mercato, che ha preso in mano le sorti e traccia una rovinosa direzione di marcia per il pianeta. A dire il vero, questo è il movimento che prende atto dei guasti e dei fallimenti del neoliberismo e con la radicalitè suggerita dal realismo si rifiuta di agire solo a valle, negli spazi ritagliati dal capitalismo compassionevole o dalle guerre umanitarie, ormai diventati tout court corporativismo populista e guerra infinita e preventiva.
Penso che in Italia, in particolare, l’urgenza drammatica del caso Berlusconi contribuisca ad assumere solo in chiave tattica le novitè sul fronte sociale ed a far dimenticare che non si vince a sinistra solo per accorte manovre degli stati maggiori. Basterebbe riflettere sul fatto che il piè alto grado di unitè e di alteritè al Governo è proprio venuto in questi ultimi anni attorno a contenuti – pace, partecipazione, diritti del lavoro, beni pubblici, libertè di informazione, uguaglianza di fronte alla giustizia – che sono state al centro delle iniziative piè vaste degli ultimi trentanni, ma su cui le alleanze politiche nel centro sinistra continuano a glissare. Cosè l’intera nostra stampa, con la sola eccezione di Liberazione ed, in parte, del Manifesto, non ha dato risalto alcuno agli eventi parigini, al contrario della stampa d’Oltralpe o di quella spagnola e tedesca, che dedicavano intere pagine alla riflessione e non solo alla cronaca. Sembrerè un paradosso, ma Fassino, che l’anno scorso dichiarava poco felicemente di non aver preso parte alla manifestazione fiorentina “per non metterci il cappello”, quest’anno ha convocato senza esitazioni l’assemblea congressuale dei DS per la lista unica alle europee proprio in concomitanza con il piè grande appuntamento di massa del continente. D’altra parte gli stessi intellettuali italiani sono rimasti alla finestra e non solo per quella sottile pretesa di autosufficienza culturale che anima un poco gli organizzatori francesiè Certo, l’organizzazione decentrata, nelle tre banlieuses separate da ore di collegamenti metropolitani ha nuociuto all’unitarietè delle presenze ed alla comunicazione tra i 53000 iscritti distribuiti su 55 plenarie, 250 seminari, un centinaio di laboratori, assistiti da 2000 volontari e 1200 interpreti. Certo, la maggiore disponibilitè verso la manifestazione dello stesso Governo francese ha caricato di minore tensione i lavori del Forum e ne ha quindi ridotto l’impatto esclusivamente conflittuale che piace cosè tanto alla rappresentazione mediatica che da noi va per la maggiore. Certo, il movimento francese esprime un pluralismo meno ampio di quello italiano, una maggiore rigiditè culturale, una presenza meno militante delle ispirazioni religiose che si contaminano con le formazioni laiche, un raccordo piè incerto con il movimento sindacale. Certo, bisognerè riflettere sulla opportunitè di appuntamenti talmente vasti da annacquare la caratteristica forse piè proficua del “movimento dei movimenti”, che è quella di mettere in comunicazione e relazione temi, esperienze e appartenenze anche distanti, ma riconducibili alla potentissima categoria del contrasto alla guerra e al liberismo. Ed in futuro potrebbe essere utile organizzare approfondimenti tematici lasciando ai forum territoriali continentali o subcontinentali il ruolo insostituibile di “fiera”, di incontro, di scambio e di autoidentificazione in un progetto comune. Ma tutto questo non spiega la sottovalutazione con cui il dibattito politico-sociale italiano ha attraversato Parigi, quasi non si preoccupasse di prenderne in consegna le conclusioni. Proprio per ciè vorrei in queste note riprendere almeno alcune delle novitè piè rilevanti.

1. L’Europa dal basso

“Il potere costituente sta nelle mani e nella volontè dei cittadini europei, ma in questo momento si sta elaborando un progetto di Costituzione Europea al di fuori della societè civile: questo progetto non risponde alle nostre aspirazioni; noi lottiamo per un’altra Europa”. Affermazioni molto impegnative, che sono contenute nel documento dell’assemblea finale del 16 Novembre e che dovrebbero per lo meno trovare qualche eco nel dibattito che segue le riunioni affannose e le polemiche tra i governi della CIG sotto la presidenza di Berlusconi. In effetti le critiche mosse dal FSE sono state riprese da Fitoussi, da Lazar, da Habermas, da Derrida e perfino, indirettamente, da Dahrendorff, ma l’attenzione puntigliosa che le assemblee hanno dedicato ai contenuti della futura Costituzione non si è affatto tradotta in lotta politica al tavolo delle forze e delle idee che hanno trovato convergenza sulla Convenzione e che stancamente dibattono lontano ormai da un’Europa federale e di democrazia sociale .E’ estremamente significativo come anche organizzazioni moderate e interne alla prassi istituzionale, come il Movimento Federalista Europeo, si siano invece rivolte direttamente ai partecipanti di Parigi con un appello per convocare una convenzione costituente a sovranitè popolare in piena consonanza di contenuti, a testimonianza di una avvenuta contaminazione: “un’Europa di pace che ripudia la guerra, una cittadinanza cosmopolita legata alla residenza, un’Europa sociale e dei diritti”. E’ in virtè di una autentica vitalitè che il FSE coglie l’orizzonte continentale come contenitore spazio-temporale di rivendicazioni fino ad ora difese e rielaborate solo in ambito nazionale, mentre sono invece in via di smantellamento su scala globale. Corrisponde ad un salto di qualitè dell’iniziativa e ad una testimonianza di luciditè, dal momento che la costruzione europea è un passaggio di civiltè prodotto dalle generazioni precedenti ed in particolare da quella antifascista, che aveva individuato nel lavoro e nel ripudio della guerra i tratti fondanti del patto sociale per il futuro. Non è per caso che “bella ciao” è diventata “la” canzone delle ragazze e dei ragazzi del movimento. A Parigi, assai piè che a Firenze – e non poteva che essere cosè dal momento che si sta materializzando una costituzione “octroyee” a dispetto di un protagonismo sociale tutt’altro che sopito – si è identificato un percorso di aggancio tra lotte e campagne di massa e caratteri di nuova civiltè di una costruzione dell’Europa che incrocia la globalizzazione. Non propaganda, nè un discorso generico sui valori dell’occidente, nè l’equivoco di una terza via, ma la praticabilitè della pace senza se e senza ma di fronte alla dimensione nuova della guerra, dello ius soli di fronte alla limitazione della cittadinanza ai soli nativi, del diritto al lavoro e della piena occupazione di fronte alla precarietè strutturale e al ridimensionamento in atto della tradizione giuslavorista. Va poi detto che in particolare l’apporto francese e tedesco alla discussione ha portato in luce il legame diretto tra servizi pubblici e universalitè del welfare; ha fatto emergere il conflitto tra crescita economica e valorizzazione della natura; ha fatto assumere la diversitè culturale come dimensione della stessa libertè di informazione e del diritto alla comunicazione. Sono temi che erano restati in ombra nella discussione precedente e che ora troveranno collocazione nell’elaborazione del Forum europeo per la democrazia costituzionale. In definitiva, rispetto alla Convenzione europea e ai lavori della CIG, a Parigi è andata in porto una duplice operazione: quella di disvelare i tratti di dottrina liberista assunti in un progetto di costituzione tenuto finora gelosamente al riparo da un dibattito pubblico e quella di denunciare la stabilizzazione di un governo sovranazionale degli esecutivi, che interrompe il circuito della rappresentanza e della sovranitè popolare riconosciuto dalle Costituzioni dei singoli Paesi dell’Unione. Con queste convinzioni e con la messa a disposizione dell’elaborazione dei tavoli tematici e delle campagne in corso, si è di fatto aperto anche un confronto in piena autonomia tra il movimento e l’insieme delle istituzioni democratiche di ciascun territorio e nazione, che potrebbero a loro volta essere portate a confliggere con il deficit democratico e sociale delle future istituzioni europee. La giornata di “azione per un’altra Europa” decisa per il 9 Maggio, data prevista per la ratifica della Costituzione, rappresenta una novitè con cui dovrè alla fine fare i conti un testo controverso, deludente e contorto prodotto dalla Convenzione, ma che per l’opinione pubblica sembra finora in discussione solo da destra. Per la preparazione di quella scadenza, il FSE si rivolge in particolare al movimento sindacale europeo, che ha giè in parte risposto affermativamente con il dispiegamento di FIOM e IG Metall alla testa del corteo del 16 Novembre.

La critica al concetto di crescita

Raramente, quanto al Forum parigino, si è assistito ad una critica cosè estesa al concetto di crescita. Occorre dire che, al pari dell’accelerazione per la dimensione europea, anche su questo aspetto viene ad incidere un fatto oggettivo portato dall’esterno, che è costituito nella fattispece dallo sconvolgimento climatico e dall’inquietante canicola dell’estate europea del 2003. Alle parole supponenti e autoconsolatorie di Bush- “la crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema” – Latouche, Altvater, Ravaioli, Ferrante, Navarro, Stupples, e Diakos hanno cercato risposte nella decrescita e nel rallentamento, con una rottura di non poco conto con la tradizione della stessa sinistra. Si tratta della crisi del concetto quantitativo di “massimizzazione” che ha dominato l’economia classica ed il processo di industrializzazione basato sui combustibili fossili fino alla sua estremizzazione liberista, confermata quando i conflitti con l’ambiente e con la societè ne esigevano invece il superamento. L’economia tradizionale non tiene in alcun conto il fatto che materia ed energia entrano nel ciclo economico produttivo per uscirne degradati e con minor valore: si è cosè scoperto che l’aumento della produttivitè del lavoro a scapito della produttivitè della natura è connaturato al modo di produzione capitalistico e al sistema d’impresa, ma non crea solo guasti nell’immediato sul piano sociale , bensè si rivela una scelta insostenibile nel lungo periodo. Essendo inevitabile in termini fisici la decrescita della produzione al passare del tempo, occorre orientarsi a produrre valore con meno materia, con meno energia, con maggiore lentezza, aumentando l’efficienza assai piè che la produttivitè dei processi. Si tratta di un mutamento enorme a livello delle politiche industriali, dell’estensione dell’economia sociale, della riappropriazione del proprio tempo e di una riconsiderazione della riduzione dell’orario di lavoro, della definizione dei beni comuni come l’acqua e l’energia da sottrarre alla commercializzazione ed alla privatizzazione. Occorre convincersi che la produzione di qualsiasi bene o servizio, in termini di consumo di materia e di degrado dell’energia, comporta un’opportunitè in meno per gli esseri viventi che verranno dopo di noi. Si tratta di un’estensione intergenerazionale del concetto di solidarietè a cui la politica che conosciamo non ci ha affatto abituato e che obbliga ad uno spostamento del nostro orizzonte temporale. Siamo oggi costretti a rivedere la nostra concezione dello sviluppo, a sentirci parte di un destino comune con quelle risorse e quell’energia che sono in grado di ordinare il mondo vivente, ma solo a costi sopportabili, limitandone il degrado e consentendone la ricostruzione della base rinnovabile. A fronte del progressivo esaurirsi delle fonti fossili occorrerè fasare sempre di piè i tempi della produzione e del consumo a quelli del flusso solare e dei grandi cicli naturali come quello dell’acqua, elemento vitale per eccellenza. E’ in questa consapevolezza ancora abbozzata che si è sviluppato prima nel Forum Mondiale ed ora anche in quello europeo un dibattito sull’economia
del tutto irrituale e una riflessione sulla “bioeconomia”, una disciplina che ha incontrato nel passato solo sporadiche attenzioni negli ambienti scientifici ed universitari del mondo occidentale. La riprova di uno sforzo a tutto campo viene dal progetto varato a St. Denis di un contratto mondiale per la conservazione e la qualitè dell’energia, in analogia con il contratto mondiale per l’acqua. La follia della guerra e della corsa agli armamenti ha cosè trovato una conferma anche come crimine energetico-ambientale e come distruzione inferta anche alle generazioni future.

La presenza delle donne

Gli attenti bilanciamenti degli organizzatori del Forum prevedevano come condizione per una corretta rappresentanza anche il pluralismo di genere. Ad ogni presidenza e ad ogni gruppo di relatori spettava un pacchetto di proposte secondo equilibri riconosciuti e concordati. Ma questo utile formalismo è stato in effetti travolto durante tutta la manifestazione da un protagonismo assai significativo da parte delle donne e dal peso assunto dalla iniziativa di avvio del Forum: una assemblea per i diritti delle donne tenuta a Bobigny il 12 Novembre. Piè di 5000 delegate provenienti da 44 Paesi hanno riempito una sala stracolma ed hanno discusso della prospettiva di uguaglianza, sotto il cui profilo è stata posta la questione di genere, in cinque gruppi dal titolo estremamente indicativo: donne e guerra, donne e violenza, diritto al lavoro, donne e migranti, donne e potere. Oltre all’inaspettata affluenza è stata la qualitè delle testimonianze e delle proposte che ha dato un carattere all’evento, facendo pesare i contenuti del documento finale sull’esito di tutte le plenarie dei giorni successivi. Come contributo dall’Europa alla imprevedibile novitè della sessione sul patriarcato che si terrè al Forum Mondiale in India, è stato denunciato il dominio maschile che attraversa i rapporti sociali e sessuali nelle culture, nelle religioni, nei comportamenti e come discriminazione irrisolta nella societè e nella famiglia. Questo dominio è stato tuttavia attualizzato e nei fatti riproposto come chiave di lettura anche della societè europea in evoluzione, con la sua sottovalutazione della sfera della riproduzione, le tensioni sui nodi dell’emigrazione, la difficoltè nell’incontro fra le culture, a partire dall’acutissima prossimitè e attualitè della questione femminile nel mondo islamico. Sfuggendo a tentazioni minoritarie, è stato avanzato il principio dell’uguaglianza tra i sessi come valore dell’identitè democratica europea , da riprendere nel testo costituzionale superando il concetto piè debole di paritè. Quando poi nella sala di Bobigny è giunta la notizia della strage di Nassirya, le donne italiane hanno legato l’emozione ed il dolore alla richiesta secca del ritiro delle truppe in Iraq. “Via i signori della guerra, via la guerra dalla storia, via l’Europa dalla guerra” sono le affermazioni del volantino che esse hanno distribuito giè nella serata davanti all’ambasciata italiana. Molti altri temi, dal lavoro, all’informazione, all’immigrazione hanno ricevuto contributi di rilievo. Tuttavia queste note non si propongono di essere in tutto esaurienti, quanto di evocare la sostanza dentro e dietro l’evento. Concludere una riflessione sulle giornate di Parigi con l’accenno alla presenza femminile corrisponde alla certezza di essere in presenza di una fase di crescita e consolidamento di questo movimento, costretto dalle “nebbie della guerra” a temprarsi nei suoi orientamenti, a cercare la sua identitè e il suo profilo piè su se stesso che nell’immagine che la potenza dei media gli vorrebbe assegnare. Il timore che un ceto politico professionale potesse occupare la ribalta della cronaca non ha mai impensierito il movimento femminista che cercava nella pratica delle relazioni concrete il punto di veritè sulla propria crescita ed il proprio potere. Oggi questo timore non deve sfiorare nemmeno noi, dato che fa ancora differenza per la gente comune limitarsi a partecipare solo ai momenti elettorali o essere invece soggetto di proposte, di processi democratici effettivi e di lotte con cui si costruisce solidarietè e si conquista giustizia ed uguaglianza. Il movimento dei movimenti, che i Francesi hanno opportunamente ribattezzato “altermondiale”, rappresenta innanzitutto questo. In tal senso, l’elaborazione di rivendicazioni sempre piè organiche e il diffondersi di una radicalitè aperta all’ascolto e ad un continuo confronto emanano un autentico fascino costituente. Le rappresentazioni che il corteo dava di sè ai Campi Elisi non possono non costituire un argomento di discussione anche per la crisi di rappresentanza della sinistra: “siamo la stoffa dei sogni” era scritto su uno striscione; “siamo diversi e plurali e questa è la nostra forza” è scritto nel documento finale. Perchè qui da noi tanto silenzio?