REPOSITORY

Articoli, Generale

A PROPOSITO DI NEOAMBIENTALISMO

Mario Agostinelli per Golem Dic 2010

Si parla ormai di “neoambientalismo italiano”. Lo definisce così Asor Rosa riprendendo Viale e avviando sul manifesto un dibattito per analizzare le discontinuità con il passato. Ricorrendo alla mia esperienza diretta avanzo qui alcune considerazioni. La prima novità che caratterizza le realtà di movimento che conosco riguarda la qualità e lo specifico della dimensione locale, nel momento in cui un percorso partecipativo utilizza i conflitti aperti per dar forma ad un’“identità del territorio”. Una identità includente anzichè escludente, opposta quindi all’”identità dei nativi” di stampo leghista. A questa scoperta della qualità territoriale si arriva in primo luogo per opposizione ai processi di degrado che la minacciano. Una volta però superata la fase di “aggregazione contro”, le rivendicazioni e le lotte si indirizzano a una alternativa di convivenza e di relazioni sociali che fa perno sul mantenimento e la valorizzazione delle risorse naturali disponibili.

La solidarietà anche verso le future generazioni, l’autoorganizzazione e la condivisione sono gli orizzonti di una rinascita di pratiche di democrazia diretta che, prima o poi, portano al conflitto con gli eletti designati dai partiti che, al di là della loro collocazione, risultino subalterni o espressione dei “poteri forti”. Si dà vita così a un tessuto partecipativo “dal basso” che critica e delegittima la delega esterna e si plasmano esperienze diverse da posto a posto: tanto articolate quanto singolare e vitale è un luogo in cui si vive e abita a confronto dell’opacità indifferenziata di territori da attraversare o da consumare come vorrebbero le lobbies degli affari. In tutti i casi, ai comitati che si formano è chiarissimo che il processo che stanno innescando non si ferma al territorio, essendo le loro rivendicazioni complementari ad altre in altri luoghi, come d’altra parte attesta lo scambio in rete costitutivo di un’esperienza locale aperta.

La seconda novità concerne una sintesi già in corso, che percorre le diverse realtà territoriali e che riconduce le rivendicazioni in atto, dalla Val di Susa al Vesuvio, alla categoria dei “beni comuni”. Attorno a questo concetto sintetico e pregnante si muovono comitati e piattaforme nazionali e sovranazionali e si svolgono lotte già unificanti che fanno presagire che la “nuova narrazione”, così spesso evocata, sia già in atto, anche se la politica schiacciata sul presente elettorale non se ne fa sfiorare. La critica spesso rivolta alla inadeguatezza e quasi alla “ancellarità” della dimensione territoriale è pertanto fuori luogo, se si pensa che essa è indispensabile alla nascita di una coscienza del cambiamento e che la sua connessione con livelli di governo più ampi è già operante.

C’è da chiedersi allora perché territorio e beni comuni siano il perno di un “neoambientalismo” in espansione e perché in esso il mondo del lavoro sia ancora relativamente ai margini. Credo che la spiegazione stia nella solitudine che il mondo del lavoro continua a sentire intorno a sé, mentre è diffusa la percezione di larghi strati della popolazione che in questa fase della civiltà sia in discussione addirittura la sopravvivenza, così come la si misura nel degrado osservato di acqua, suolo, aria e nel consumo obbligato, anche se indesiderato, di energia. Una popolazione in linea con tutte quelle che nel pianeta reagiranno con rabbia e vivranno come un dramma la delusione di Cancun, nonostante la quasi totalità della stampa nazionale, che si è spesa con successo per convincere che l’arretramento delle condizioni di lavoro sia un prezzo inevitabile della globalizzazione, abbia scelto di non informarli affatto. Quando si pensa che i governi hanno distolto il 20% del PIL mondiale per salvare le banche e che non trovano disponibilità a giocarne il 2% per mitigare gli effetti del cambiamento climatico che si farà pagare assai di più, allora si capisce perché i tempi tra politica e società si sfasino e perché l’attenzione non solo alla produzione, ma alla riproduzione si riorganizzi a partire dal proprio territorio, dove la vita primeggia sull’economia.

Dopo tre secoli di rivoluzioni industriali e cinque di rivoluzione scientifica che hanno fatto dell’Occidente il motore del mondo, oggi si torna ad interpretarne le dinamiche secondo la visione greca basata sui quattro elementi empedoclei, che evocano la qualità prima che le quantità. Questo “neoambientalismo”, che ha giuste e preveggenti intuizioni, riceve ancora scarsa attenzione – perfino culturale – nella sinistra, forse anche perché non tiene abbastanza in conto la questione del lavoro. Non è automatico in un simile contesto gettare lo sguardo oltre l’ambiente, anche se si comincia a capire che siamo ad un passaggio dello sviluppo che impone di rifasare con l’orologio della biosfera sia i ritmi produttivi che i tempi dei cicli naturali, accelerati e squilibrati dalla disponibilità delle fonti fossili (lavoro di milioni di anni del sole da bruciare in un baleno) e consegnati al mercato e al profitto dal sistema industriale del capitalismo globalizzato.

Cicli “spremuti”oltre ogni misura: per la terra cementificata e erosa o spinta a raccolti abbondanti e frequenti, ma irripetibili nel lungo periodo, dall’uso dei fertilizzanti, dall’irrigazione intensiva, dall’impiego di sementi geneticamente modificate; per l’acqua forzata ben oltre la gravità e l’evaporazione che ne regolano la rigenerazione; per il vento caricato di energia distruttiva dalle emissioni e dagli inquinanti; per il fuoco reso abbondante e disponibile non dal sole, ma dal consumo non rinnovabile di fossili e dalla conversione della materia. Ma la vittoria del capitalismo a livello globale oscura il fatto che il lavoro è anch’esso una risorsa consumata e degradata al pari di quelle della natura. La sottrazione dei tempi di vita alla socialità, all’ozio, all’attività riproduttiva e la saturazione totale di quelli di lavoro sembrerebbero così rimanere impunemente a disposizione di un modello che distrugge tutto quanto appartiene all’unicum della biosfera, a lungo scomposta tra “uomo” e “natura” nella tradizione cristiana e tra lavoro e risorse nella lettura della sinistra. Ma come si potrebbe ottenere il cambiamento desiderato senza passare dal conflitto e dalla democrazia nei posti di lavoro e senza ripristinare una piena autonomia delle organizzazioni sindacali, da coinvolgere irrinunciabilmente in questo movimento “dal basso”? Questo è il messaggio che ci manda la FIOM che, significativamente, titola una sua iniziativa dopo Cancun “Il clima delle fabbriche”.

In fondo, se al centro della politica si riporta il tempo, con la sua incomprimibilità quando si tratta di cicli che hanno a che fare con la vita e con la limitazione di libertà delle persone che non ne sono più proprietarie, appare in tutta evidenza come abbiano una matrice contigua aspetti apparentemente incommensurabili con lo stesso metro, come il rapido avvicinarsi della catastrofe climatica e l’ossessione della competitività del sistema d’impresa; il consumo di suolo e la soppressione delle pause mensa a Pomigliano; l’indifferenza per i tempi di attività letale delle scorie radioattive e la precarietà imposta ai contratti di lavoro.

Partire dai territori, dai beni comuni e dalla loro rinnovabilità e – perchè no – anche dalla riduzione dell’orario di lavoro, vuol dire fornire un contributo efficace per affrontare una crisi epocale con ricette diverse da quelle di chi l’ha provocata. Significa occupazione, lavoro stabile, riconversione economica e politica industriale , cooperazione al posto di competizione, stili di vita in armonia con la conservazione della natura. E, per quanto ad esempio riguarda gli effetti mortiferi della speculazione finanziaria, investimento frazionato del piccolo risparmio con conseguente ritorno dell’economia sul territorio, anziché trasferimento nel circuito delle obbligazioni e dei derivati con concentrazione di capitale nelle mani dei grandi gruppi multinazionali. Valga per tutti l’investimento per 8 miliardi negli ultimi due anni di migliaia di cittadini e imprese italiani nelle energie rinnovabili, decentrate e portatrici di nuova occupazione, a confronto di un impianto atomico EPR dal costo paragonabile, centralizzato e reso “extraterritoriale” addirittura dalla legge che ne sostiene la realizzazione.

Ma che c’entra la politica che conosciamo con tutto ciò? E nella corsa agli affari e alla corruzione dell’Italia berlusconiana, impegnata a discettare sugli amori a pagamento del premier mentre naufraga il vertice sul clima e a celebrare un manager italo-canadese che si vanta di passare il 75% del suo tempo negli USA e l’altro 75% (!) nelle fabbriche del resto del mondo, che fortuna potrebbero avere quegli eletti che provano a mettersi su una così diversa lunghezza d’onda? Non darei più per scontato un distacco progressivo della politica dalla società, soprattutto se i movimenti che hanno fatto proprio lo schema “locale-globale” vanno al salto di qualità auspicato.

La loro presa sul territorio può far fiorire programmi e pratiche che da minoritarie diventano punti di riferimento da imitare e imporre il decentramento e le reti corte come criterio di risparmio e di innovazione economica e sociale su cui coinvolgere le istituzioni locali. Un collegamento sempre più stretto tra comitati settoriali oggi ancora separati (cibo, acqua, inquinamento e rifiuti, energia), saprebbe sbarrare la strada delle privatizzazioni e aprirebbe alla green economy un percorso di discontinuità che l’economia capitalista vorrebbe invece riassorbire. L’efficienza energetica, le fonti rinnovabili, una mobilità e una produzione di cibo sostenibili potrebbero riconsegnare al sindacato il controllo dei piani di impresa e la tutela dei diritti del lavoro, che la competizione feroce nei settori maturi rende assai problematici. Una forma nuova di “concepire e vivere la democrazia” troverebbe allora una prima sintesi propositiva non solo in ambito ristretto, ma sul piano nazionale e almeno europeo, imponendo una svolta nelle normative e negli accordi sovranazionali, nelle politiche fiscali e di riconversione industriale, nella predisposizione di finanziamenti pubblici per le buone pratiche locali.

In conclusione, prima ancora di una “rete delle reti” io sento la necessità di unificare su parole chiave condivise i movimenti settoriali che si rifanno ai beni comuni. Mentre le realtà locali dovrebbero al più scambiare le loro esperienze in piena autonomia per non disperdere l’intuizione di crescere e di rappresentarsi tenendosi ancorate all’esperienza conflittuale che le ha viste nascere e, semmai, far ricorso a quella “intellettualità del bene comune” – come la chiama Sullo – che potrebbe più convenientemente essere strutturata in una unica dimensione nazionale a disposizione delle “buone pratiche” decentrate. Saperi – tecnico scientifici – conoscenze – del territorio – e buone pratiche – la sfida dell’applicazione a un contesto definito dei saperi e delle conoscenze acquisite – sono il punto di forza delle esperienza di lotta e di autorganizzazione più rilevanti degli ultimi anni: sia nei confronti di esperienze passate (per esempio nei confronti del ’68), sia nei confronti degli avversari con cui ci si confronta oggi: valga per tutti l’esempio della Valle di Susa, ma così è un po’ in tutti i campi (energia, trasporto, agricoltura, alimentazione, urbanistica, educazione, gestione rifiuti, mobilità, salute, etc). Di conseguenza, sulla valorizzazione di saperi, conoscenze e buone pratiche può essere costituito un patrimonio comune e condiviso da tutte le aggregazioni impegnate nella costruzione di una alternativa radicale al pensiero unico e al sistema liberista. In pratica una sede di elaborazione e confronto di saperi e conoscenze tematizzate già matura purchè la si decida: un anno fa si era provato in un seminario di due giorni a Verona a dar vita ad un “orto delle idee” che si è perso nei mille rivoli in cui le medesime persone si trovano impegnate con diverse etichette ma con le medesime finalità.

Penso infine che l’opportunità di un salto di qualità nei rapporti tra le realtà a democrazia diretta del “neoambientalismo” e le rappresentanze di democrazia delegata potrebbe essere già data dai programmi e dalla scelta dei candidati per le elezioni amministrative di primavera.